Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
FINE VITA

Samantha D’Incà poteva vivere. Cronaca di una morte ingiusta

Samantha D’Incà, la donna trentenne rimasta in coma dopo un intervento chirurgico, è stata "lasciata andare" per volontà della famiglia. Il padre, nominato amministratore di sostegno, ha deciso di interrompere le cure e l'alimentazione, poi di somministrare la sedazione profonda. In meno di una settimana Samantha è morta. Ma non era moribonda, poteva vivere.
- TAFIDA, DAL DOLORE UNA SPERANZA PER ALTRI BAMBINI, di Ermes Dovico

Vita e bioetica 23_03_2022
Samantha D’Incà

È difficile commentare la morte di Samantha D’Incà, avvenuta sabato scorso, alla luce dell’attivo coinvolgimento della sua famiglia nella vicenda. In effetti, i genitori e i fratelli hanno sempre sostenuto, nelle interviste e davanti al Giudice tutelare, che la volontà della giovane era quella “di non essere tenuta in vita da macchinari se non c’è la certezza che non vi sia la possibilità di risveglio” (così il padre davanti al Giudice tutelare), ritenendo tale trattamento “un accanimento e una violenza nei suoi confronti” (così la madre); entrambi i fratelli avevano espresso la certezza che Samantha “non avrebbe voluto restare in questa situazione” e “avrebbe voluto che finisse tutto da un momento all’altro”. La famiglia ha anche mostrato il suo amore per Samantha: “Il nostro obiettivo era quello di darle pace che non soffrisse, e così è stato”. La morte della figlia e sorella era vista come una liberazione e, con affetto, i genitori avevano anche sperato di portarla, “prima di lasciarla andare”,  a vedere il mare.

Tuttavia, il dolore dei familiari, la loro convinzione della necessità che Samantha fosse “lasciata andare” e del suo diritto ad essere fatta morire non possono essere l’unico filtro per valutare la vicenda e non devono impedire di ragionare sulla vicenda, senza che questo comporti un giudizio personale nei loro confronti, né di tipo morale – che non spetta a chi scrive – né di tipo giuridico, atteso che la condotta del padre, nominato amministratore di sostegno e che ha agito in forza di tale ruolo, è stato sicuramente legittimo alla luce della legislazione vigente.

La difficoltà di esprimere una valutazione oggettiva sulla vicenda – analoga a quella che legittimamente molti fecero sulla morte procurata di Eluana Englaro – deriva anche dal fatto che, in sostanza, i familiari sono anche la fonte di conoscenza di quanto effettivamente avvenuto. Tuttavia, anche mediante la lettura del decreto del Giudice tutelare di Belluno che nominò Giorgio D’Incà amministratore di sostegno della figlia, è possibile ricostruire i fatti in maniera abbastanza dettagliata.

Secondo Francesco Ognibene, sul quotidiano Avvenire la vicenda “non si presta a strumentalizzazioni per i suoi elementi di fatto”; in mancanza di Disposizioni Anticipate di Trattamento “la responsabilità secondo l’ordinamento italiano spetta all’amministratore di sostegno”; secondo Ognibene “l’aggravarsi delle condizioni della figlia (…) ha condotto ad una scelta clinica inevitabile, che fa parte dei diritti costituzionali di tutti i cittadini, come la sospensione delle cure”; in effetti “solo di fronte a una situazione ormai gravissima si è deciso di ricorrere alla sedazione profonda e alla procedura di distacco dei supporti vitali, com’è prassi clinica in situazioni tanto estreme”.

Il timore è che – proprio perché tratta dalle parole della madre di Samantha – si tratti di una conclusione che travisi alcuni fatti e ne dimentichi altri. Ognibene presenta la condizione della disabile come se si trattasse di una paziente terminale che è stata accompagnata ad una morte inevitabile e imminente; ma, soprattutto, afferma espressamente che il “diritto costituzionale a rifiutare le cure”, nel caso di persone in stato di incoscienza, può/deve essere esercitato da altri, anche senza una precedente espressione di volontà: sostiene, quindi, che l’amministratore di sostegno può rifiutare le terapie salvavita o il sostegno vitale determinando la morte dell’assistito.

In effetti, è esattamente quello che fece Beppino Englaro per sua figlia Eluana ed è proprio ciò che prevede la legge 219 del 2017 all’art. 3: quella legge che, secondo Ognibene, “non era applicabile” nel caso di Samantha D’Incà e che, invece, è stata puntualmente (ed espressamente) applicata nella vicenda. Sorprende, comunque, che Beppino Englaro sia divenuto un modello per Avvenire

I fatti: Samantha D’Incà cade in coma, a seguito delle complicazioni di un intervento chirurgico, il 4 dicembre 2020; il successivo 25 dicembre 2020 viene diagnosticato lo stato vegetativo all’atto del ricovero all’Ospedale di Feltre. Ebbene: già il 3 febbraio 2021 (meno di due mesi dopo) il padre Giorgio D’Incà aveva chiesto di essere nominato amministratore di sostegno con l’espresso potere di rifiutare la nutrizione artificiale e di procedere alla sedazione profonda. All’epoca la giovane non era nemmeno nutrita con la PEG, che sarebbe stata posizionata solo il 20 maggio 2021, quando era amministratore di sostegno provvisorio un avvocato.

Questo periodo brevissimo tra la diagnosi di stato vegetativo e la richiesta di far morire la disabile permette di intuire il fondamento della richiesta del padre: quella “non è vita”, non è una condizione in cui la figlia avrebbe voluto rimanere, quindi è meglio la morte. Per supportare questa richiesta occorreva fare riferimento a “macchinari” che avrebbero tenuto in vita la disabile (non a caso, tutti i giornali hanno parlato di una “spina staccata”) ma, in realtà – da quello che si comprende ‒ nessun macchinario era in funzione per tenere in vita Samantha. In verità, uno specialista di Innsbruck aveva proposto una terapia, mediante un macchinario speciale, per ridurre la sintomatologia rigidospastica presente: ma il Comitato Etico della USSL 1 Dolomiti ha ritenuto l’intervento chirurgico “non raccomandabile in una prospettiva bioetica” e, quindi, l’intervento non è stato effettuato.

Il fatto è che – per quanto si comprende leggendo il decreto del Giudice tutelare – tale valutazione era strettamente legata al giudizio di irreversibilità dello stato vegetativo: benché lo specialista, qualche mese prima, avesse fatto riferimento ad un livello di minima coscienza e alla possibilità per Samantha di stare seduta in una carrozzina a seguito di riabilitazione, il “recupero funzionale” della paziente era stato escluso nei mesi successivi, giungendosi (solo nove mesi dopo la diagnosi) ad una valutazione di “stato vegetativo irreversibile”, sia pure – in un passaggio altamente contraddittorio – valutando “al momento” l’impossibilità di miglioramento. Insomma: se la paziente disabile non migliorerà, è inutile qualsiasi intervento chirurgico, essendo preferibile prepararsi alla “desistenza dal trattamento di nutrizione artificiale” e alla “sedazione palliativa profonda”.

I disabili irrecuperabili non “meritano” un intervento chirurgico che possa ridurre il dolore derivante dalla spasticità. Il giudizio che traspare dal parere del Comitato Etico (riportato nel provvedimento del Giudice tutelare) viene, quindi, ad “incontrarsi” con quello del padre della disabile, già manifestato mesi prima con la richiesta di interrompere la nutrizione alla figlia: e, infatti, la nomina di Giorgio D’Incà come amministratore di sostegno nel novembre scorso fu salutata come il passaggio decisivo per “liberare” la figlia.

Veniamo, allora, agli ultimi giorni di vita di Samantha D’Incà. La disabile stava per morire? Pare proprio di no, nessuno lo afferma: piuttosto esistevano delle “complicanze”, ma è paradossale che venga procurata la morte per evitare pericoli! La scelta, quindi, non era affatto “inevitabile” ma era stata, appunto, una decisione frutto di una valutazione.

Come è stata fatta morire la disabile? Secondo lo stesso articolo del Corriere delle Alpi, lunedì 14 marzo è stata sospesa la nutrizione artificiale, due giorni dopo le condizioni della giovane si sono aggravate e, allora, si è provveduto a sedazione profonda; la morte è intervenuta sabato 19 marzo, quindi dopo cinque/sei giorni dalla cessazione della nutrizione. Samantha D’Incà è morta perché non nutrita e sedata profondamente.

Le analogie con la vicenda di Eluana Englaro, secondo chi scrive, sono evidenti: il fatto è che, questa volta, tutto è avvenuto in forza della legge 219: sì, perché, nonostante la grancassa mediatica che, per sollecitarne l’approvazione, puntava l’attenzione sul testamento biologico (le DAT), quella legge prevede espressamente che, anche in mancanza di DAT, il legale rappresentante di un incapace possa rifiutare per suo conto le terapie salvavita e il sostegno vitale e che, se medici e legale rappresentante concordano, si può procedere a procurare la morte del malato; la legge prevede anche il ricorso alla sedazione palliativa profonda che, in sostanza, può essere usata per accelerare la morte senza dolore.

La complessità e la drammaticità di questa e di altre vicende non deve essere negata: e tuttavia non si può non sottolineare come le persone in stato vegetativo e, più in generale, in stato di incoscienza (o di minima coscienza) siano oggetto di una valutazione “implicita” di non meritevolezza della vita come conseguenza della irreversibilità della loro condizione. Ciò che alcuni filosofi o bioeticisti affermano espressamente rischia di diventare un “sentire comune” della società, e a quelle persone rischiano di essere affiancate altre, altrettanto “immeritevoli” (bambini malati, disabili fisici e mentali, anziani in stato di demenza). La legge 219 del 2017 ha sancito espressamente la subordinazione degli incapaci alla volontà dei loro legali rappresentanti (vale anche per i bambini: benché non siano emersi pubblicamente casi in Italia, ricordiamoci di come in Gran Bretagna è stato valutato il best interest di molti bambini malati).

Dobbiamo ribadire che nemmeno la ricostruzione di una volontà dell’interessato precedente alla caduta nello stato di incoscienza rende legittima la soppressione del disabile: con le DAT, il legislatore ha fatto una precisa scelta favorevole alla morte dei soggetti in stato di incoscienza, mentre la risposta alla malattia e alla disabilità non può che essere una tutela rafforzata della vita e della salute della persona. Nessuna vita è inutile.