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L'IO E LA CRISI DELLA MODERNITA'/4

Sartre e Camus, senza un senso la vita è assurda

Il muro del filosofo esistenzialista marxista J.P. Sartre e La peste di A. Camus presentano tutto il dramma di uomini prigionieri di una vita senza l'orizzonte dell'eternità. Anche la reinterpretazione del mito di Sisifo, che Camus vuole felice della sua fatica, non regge alla prova della realtà.

Cultura 23_10_2016
Albert Camus e Jean Paul Sartre

Ne Il muro (1939) il filosofo esistenzialista marxista J. P. Sartre (1905-1980) presenta l’uomo come posto di fronte ad un bivio, immobile, incapace di prendere la strada che potrebbe eventualmente liberarlo dal carcere in cui vive, un uomo che non crede e che non ha speranza che la vita possa cambiare. Il muro diventa emblema della condizione di isolamento dell’uomo contemporaneo.

L’opera si struttura in cinque racconti in cui viene messo a tema lo straniamento dei personaggi e la loro fatica di vivere la situazione assurda dell’esistenza, che si traduce in un immobilismo e in un’incomunicabilità umana. Un condannato a morte, nel racconto da cui è mutuato il titolo della raccolta, attende l’alba che lo porterà al supplizio.

Nella notte si chiede: «Con quale ardore correvo dietro alla felicità, alle donne, alla libertà! […] Avevo voluto liberare la Spagna, […] avevo aderito al partito anarchico, avevo parlato in comizi: avevo preso tutto sul serio, come se fossi stato immortale. In quel momento ebbi l’impressione che tutta la mia vita mi fosse davanti e pensai: «È una sporca menzogna». Essa non valeva nulla dal momento che era finita. Mi chiedevo come avessi potuto andare in giro, scherzare con le ragazze: non avrei mosso neppure il dito mignolo se soltanto avessi potuto immaginare che sarei morto così. La mia vita era davanti a me, chiusa, sigillata come una borsa, eppure tutto quello che vi era dentro era incompiuto». 

Se tutto deve finire, se nulla è destinato all’eternità, la vita è una menzogna per cui non vale la pena di impegnarsi. Se non c’è un orizzonte più vasto oltre la precarietà dell’ultima giornata che ci è data da vivere, allora non c’è motivo di combattere, non c’è ideale che davvero possa muovere il nostro agire. Un filosofo stoico potrebbe ribattere che c’è motivo di combattere, perché la nostra opera resterà dopo di noi, il nostro contributo di bene e di azione non morirà con noi, ma resterà per la realizzazione e la costruzione del bene totale. Anche se l’anima individuale non sopravvive, sopravvive l’opera, che è come la nostra piccola, ma insostituibile tessera del grande mosaico del mondo. Al filosofo stoico un grande scrittore contemporaneo come Pirandello potrebbe replicare che un conto è il singolo individuo e un altro l’umanità.

In un altro racconto di Sartre intitolato «La camera» la moglie di un pazzo è combattuta tra l’abbandonare l’uomo e l’attesa che lui torni quello che aveva conosciuto un tempo. La sua è una situazione di scacco in cui la donna sembra quasi desiderare di diventare come il marito, separandosi definitivamente dalla realtà umana per entrare in «quel mondo tragico» fatto di statue che «volavano basse e leggere» e che «ronzavano». «Con tutta le forze ella voleva credere alla loro presenza; l’angoscia che paralizzava il suo lato destro, ella cercava di farne un nuovo senso, un tatto. Nel braccio, nel fianco e nella spalla, ella sentiva il loro passaggio». Anche le altre figure vivono in un mondo sempre più piccolo, deprivato del Mistero profondo del reale.

A. Camus (1913-1960) identifica, invece, nel mito di Sisifo la situazione esistenziale dell'uomo. Sisifo è stato condannato dagli dei a far risalire su un monte un macigno, ma quando sta per arrivare in cima il macigno ricade giù e Sisifo riprende in eterno la sua fatica, senza sosta. Non c’è nulla di più assurdo che lavorare e faticare senza ottenere mai alcun esito dalle proprie azioni. Camus reinterpreta il mito considerando Sisifo addirittura felice: «Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua […]. L’uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere gli altri idoli […]. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».

Perché, mi chiedo io, Sisifo dovrebbe essere felice? Per il suo sterile lavoro, perché è cosciente del suo destino, perché opera in maniera indefessa senza uno scopo? Potremmo più facilmente rispondere che l’assenza di una ragione per cui lavorare, faticare e alzarsi al mattino può solo rendere la vita disperata e tragica. Aveva giustamente scritto Cesbron che «tutto l’errore della vita è che l’uomo vuole essere perfetto e non santo», cioè felice. Nonostante la sua titanica fatica, Sisifo non giungerà mai neppure alla perfezione, cioè al compimento, perché la sua opera non si concluderà mai. Ecco perché, sostiene Camus, la reazione più naturale a tale condizione esistenziale è quella della rivolta, della ribellione. Sappiamo bene dove porterà di lì a pochi anni questa teorizzazione.

Altrove, nel celeberrimo romanzo La peste, Camus descrive la vita dell’uomo nella iperbolica condizione della città di Orano, dove si diffonde gradualmente il morbo mietendo morte senza che nessuna autorità voglia riconoscerlo. Il male e la distruzione devastano quelle che sembravano isole di felicità mostrando all’uomo il volto di un destino cui non ci si può contrapporre. Unica posizione umana auspicabile è quella del dottor Rieux che combatte in maniera energica non per sé, ma per tutti, fino a che il morbo non è debellato. Ma è una vittoria momentanea. Senza un senso e un Mistero che possano dare significato a tutto, anche al male, alla sofferenza e al dolore, anche la lotta più indefessa assume i contorni di un titanico agire contro una forza più grande di noi. Questo è il trionfo dell’assurdo, perché non c’è sforzo umano che possa dare consolazione da solo di fronte alla morte.