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UN'INCURSIONE PERICOLOSA

Se lo Stato educa all'affettività

No all’affettività di Stato. Se l’istituzione scolastica ritiene di aver qualcosa da offrire proponga dei momenti di formazione ai genitori, i quali vedranno se avvalersene. In tema di affettività e di educazione sessuale i genitori hanno il dovere e il diritto di non cedere la loro responsabilità educativa alla scuola.

Editoriali 03_10_2016

No all’affettività di Stato. Se l’istituzione scolastica ritiene di aver qualcosa di suo da offrire in materia proponga piuttosto dei momenti di formazione e di confronto ai genitori, i quali vedranno poi se avvalersene o meno. Questa a nostro avviso dovrebbe essere la risposta dei genitori e dei loro organismi di rappresentanza a proposte del genere: che cioè  siano rivolte ai genitori stessi e non agli allievi. Se così fosse questi momenti potrebbero anche diventare dei positivi momenti di confronto dei genitori tra loro e con gli esperti per professione.

All’ombra di documenti di vario genere (linee-guida, circolari, piani dell’offerta formativa, proposte di “laboratori” e così via), con l’inizio dell’anno scolastico tornano infatti alla ribalta in molte scuole statali del Paese proposte di momenti per lo più extra-curriculari in tema di “educazione all’affettività”: offerte didattiche che non sono affatto “obiettive”, né lo potrebbero essere, ma risultano di regola ispirate a culture di orientamento relativista se non nichilista; culture che trovano oggi largo sostegno nei media, ma nelle quali un gran  parte delle famiglie degli allievi non si riconosce affatto. De jure la scuola statale sarebbe tenuta a fornire ai suoi allievi istruzione nel quadro dei programmi ministeriali. De facto ormai da quasi vent’anni, dai tempi del primo governo Prodi, è in atto un… assalto alla diligenza da parte di forti ed esperte lobbies impegnate a introdurre per vie traverse nuovi temi e materie nella scuola statale aggirando i programmi ministeriali e quindi eludendo i meccanismi di pubblico dibattito e di aperta consultazione che essi implicano. È un  processo che nel caso specifico è tra l’altro ampiamente descritto da Roberto Marchesini nel suo Uomo, donna, famiglia e “gender”, I libri della Bussola n.4 (clicca qui).

Di fronte alla forte pressione, accompagnata da forzature spregiudicate di leggi e di circolari, che in molte scuole statali caratterizza tale processo, troppo spesso anche molti genitori contrari a che i loro figli ricevano dalla scuola questo genere di “educazione” si rassegnano ad accettarla in cambio dell’eventuale possibilità di influire sulla scelta dei docenti e sul metodo e i contenuti del loro insegnamento. Ad esempio ci si piega a una forzatura dell’art.1 comma 16 della legge della “Buona Scuola”, in forza della quale si pretende che da esso derivi una legittimazione dell’insegnamento del “gender”, quando invece ciò è stato esplicitamente escluso da una circolare ministeriale del 15/09/2015.

Si tratta a nostro avviso di un’abdicazione del tutto ingiustificata. In tema di affettività e di educazione sessuale i genitori  hanno il dovere e quindi il pieno diritto di non cedere la loro responsabilità educativa alla scuola. E questo non soltanto perché l’«educazione all’affettività» è quasi sempre la foglia di fico verbale dietro la quale si nascondono iniziative legate alla cultura “gender”. Fossero anche proposte in sintonia con la realtà delle cose e con il buon senso, accompagnate da corrispondenti maggioranze negli organi di rappresentanza dei genitori, vanno respinte ugualmente.

È il tema in sé che non può trovare spazio nella scuola. Per natura sua l’argomento non si presta alla lezione in aula. Sono i genitori che vi devono provvedere “su misura” per ciascun loro figlio o figlia quando e come opportuno. È vero che dei genitori possono non essere preparati a farlo, ma la soluzione giusta del problema non è quella di fare leva sulla loro eventuale impreparazione per espropriarli di un compito educativo che per le sue specifiche dimensioni valoriali ed emotive è innanzitutto e sostanzialmente loro.

In pieno contrasto con il principio della libertà d’educazione il nostro è uno degli ultimi Paesi europei in cui ancora persiste il monopolio statale della scuola pubblica semi-gratuita. In questo quadro va tanto più fermamente difeso il limite che alla scuola statale venne fissato sin da quando nel 1861 nacque il nuovo Stato italiano. Malgrado avesse la Francia come suo grande modello, il nuovo Stato si dotò di un Ministero della Pubblica Istruzione, e non di un Ministero dell’Educazione nazionale. Fissato il monopolio statale, almeno non si pretese che lo Stato educasse. Ci si accontentò che si limitasse ad istruire. 

Fu poi significativamente il fascismo nel 1929 a cambiare nome e funzione al vecchio ministero  dando vita appunto a un Ministero dell’Educazione Nazionale. Nel maggio 1944 il II governo Bonomi tornò al vecchio nome, durato sino al dicembre 1974; e poi scomparso e ricomparso fino a quando nel 2008 confluì nell’attuale nome di Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca, MIUR. Soltanto dunque in epoca fascista e per meno di quindici dei suoi oltre 150 anni di storia il Ministero e quindi la scuola di Stato cui presiede hanno preteso di educare.

Questa salutare limitazione, che salvo la parentesi del fascismo è stata sempre confermata, va difesa senza esitazioni dall’ “assalto alla diligenza” che, dicevamo, la scuola di Stato sta attualmente subendo. Nei modi più diversi, a colpi di iniziative e di corsi extra-curriculari ma non solo, vi si introducono nuovi temi e nuove materie prescindendo dai programmi ministeriali; e quindi eludendo il pubblico dibattito e gli obblighi di  consultazione  che i programmi ministeriali implicano. A questo processo si deve a nostro avviso rispondere con un’opposizione di principio, punto e basta.  

Sarebbe ben grave che accadesse adesso quanto non accadde in epoche in cui gli spazi formali di libertà erano ben più ristretti di quelli di oggi. E ad opera nemmeno dello Stato ma di spregiudicate lobbies decise ad approfittare della confusione del momento per imporre a tutti il loro relativismo come cultura unica della scuola italiana.