Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

LA SETTIMANA SANTA

Sindone, testimone della Resurrezione

La Sindone rimane il testimone più eloquente della crocifissione, poichè il suo legame con i racconti della Passione è strettissimo. Essa infatti è icona dell’amore di Dio per gli uomini e ci richiama continuamente alla meditazione del mistero storico-salvifico della Passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, fondamento della fede cristiana.

Ecclesia 25_03_2016
La sindone dopo la crocifissione

Le lesioni visibili sull’impronta dell’Uomo sindonico costituiscono una testimonianza molto preziosa dell’antichissima pratica della crocifissione, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Nonostante le fonti scritte sulla crocifissione pervenute fino a noi siano innumerevoli, ancora oggi non conosciamo tutti gli aspetti e le implicazioni di questa antichissima pratica, le cui origini e la stessa provenienza geografica non possono essere stabilite con certezza.

Viceversa, sono molto rare le testimonianze archeologiche che possono far luce su questo terribile supplizio. Tra queste possiamo annoverare la Tabula Puteolana, ritrovata a Pozzuoli nel 1940, che riportava alcune norme per la crocifissione degli schiavi, i resti dell’uomo crocifisso di Giv’at ha-Mivtar, scoperti nei pressi di Gerusalemme nel 1968, e la Sindone di Torino. Tuttavia, questo terribile supplizio era molto diffuso presso molti popoli dell’antichità come Assiri, Babilonesi, Egiziani, Persiani, Greci e Romani. Fu inoltre molto comune presso i Cartaginesi e i Romani probabilmente lo appresero da questi durante le guerre puniche.

Sappiamo di certo che nell’antica Roma il castigo della crocifissione era riservato agli schiavi, agli stranieri e ai membri delle classi sociali più deboli. A Roma esisteva un luogo specifico predestinato alla crocifissione degli schiavi, che Tacito identifica con il Campo Esquilino (Annales II, 32, 2), dove venivano erette numerose croci che potevano essere di diversa natura e forma, come si evince per esempio dalla testimonianza di Seneca (De Consolatione ad Marciam XX, 3).

Stando alle fonti antiche, la croce era costituita solitamente dallo stipes (palo verticale) e dal patibulum (palo orizzontale) e poteva presentare diverse forme tali da consentire di porre gli arti del crocifisso in diverse posizioni. Le tipologie di croci più diffuse erano la crux immissa (†) che veniva assemblata attraverso l’inserimento del patibulum nello stipes, la crux commissa che presentava la forma di una T (il patibulum veniva innestato alla sommità dello stipes, in modo che nessun elemento della croce si innalzasse sopra il capo del crocifisso), la crux decussata, chiamata anche croce di sant’Andrea, che veniva realizzata incrociando due assi in diagonale (a forma di X), e la croce greca (+), in cui i quattro bracci di uguale misura si intersecavano ad angolo retto.

Nel suo resoconto della Passione, Giovanni lascia intendere chiaramente che alla fine del processo Gesù fu caricato del patibulum: «Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Golgota» (Gv 19,17). Le origini del patibulum come strumento di condanna dovrebbero essere ricercate nelle antiche domus romane, dove le porte venivano aperte e chiuse attraverso l’ausilio di travi orizzontali di legno, che all’occorrenza venivano utilizzate per punire gli schiavi ribelli. Pare che proprio queste travi siano state poi utilizzate come parti di croci, quando le crocifissioni divennero più frequenti in tutto l’Impero.

La notizia giovannea sembra trovare conferma in alcuni segni che sono chiaramente visibili all’altezza delle spalle dell’Uomo sindonico. Si tratta di forti escoriazioni, causate probabilmente dal trasporto di una trave di legno molto ruvida e di notevole peso. Sebbene i resoconti evangelici della Passione siano concordi nell’affermare che una volta giunti sul luogo del Cranio i soldati crocifissero Gesù, non ci dicono quasi nulla sulle modalità di crocifissione.

Tuttavia, la Sindone sembra raccontare in immagine ciò che viene descritto nei resoconti evangelici della Passione. L’impronta visibile sul tessuto sindonico, infatti, è sicuramente quella di un uomo crocifisso, come si deduce dalla ferita presente sul carpo della mano sinistra, causata probabilmente da un chiodo, e dalla lesione del piede destro, provocata da un altro oggetto appuntito, riconducibile appunto ad un altro chiodo. Non è certo se i piedi siano stati trafitti da uno o due chiodi: uno studio attento della posizione e dell’orientamento delle impronte dei piedi sembra avvalorare l’ipotesi del chiodo unico, con il piede sinistro sovrapposto al destro.

Tracce di un’altra crocifissione sono ben visibili nei resti di un uomo di cui conosciamo il nome, Jehohanan, rinvenuti nel 1968 nei pressi di Gerusalemme, in una località chiamata Giv’at ha-Mivtar. Le sue ossa erano contenute all’interno di un ossario, insieme a quelle di un bambino e all’osso cuboide (osso breve del tarso) di un terzo scheletro. La scoperta più importante consiste nel fatto che il tallone di Jehohanan risulta perforato da un chiodo di 11,5 cm (la cui posizione lascia intuire le modalità di crocifissione di quest’uomo, con i piedi affissi ai lati del palo verticale).

Lo studio dei reperti ceramici e della tipologia delle sepolture all’interno della tomba dove era custodito l’ossario suggerisce di datare questa crocifissione all’epoca del Secondo Tempio o comunque in un periodo antecedente allo scoppio della prima grande rivolta ebraica, in quanto durante l’assedio di Gerusalemme (70 d.C.) non sarebbe stato possibile provvedere al riseppellimento in ossari custoditi nelle tombe che si trovavano fuori dalle mura della città.

In ogni caso, la Sindone rimane il testimone più eloquente della crocifissione, poichè il suo legame con i racconti della Passione è strettissimo. Essa infatti è icona dell’amore di Dio per gli uomini e ci richiama continuamente alla meditazione del mistero storico-salvifico della Passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, fondamento della fede cristiana.