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EDITORIALE

Statali: tanti e vecchi Impariamo dalla Svizzera

Secondo una ricerca fra i 3 milioni e 200mila dipendenti statali italiani solo 100mila hanno meno di trent’anni. Ma la vera domanda è: come mai abbiamo così tanti statali? Per un governo veramente riformatore cambiare l'amministrazione statale dovrebbe essere il primo obiettivo.

Editoriali 06_10_2015
Statali

Secondo una ricerca di cui il Corriere della Sera ha dato ieri notizia, fra i tre milioni e duecentomila dipendenti statali italiani sono oggi soltanto 100 mila quelli che hanno meno di trent’anni. Se poi – osserviamo per parte nostra -- si escludessero dal conteggio i militari, la cui età media (37 anni e mezzo) è inevitabilmente bassa, la presenza di giovani nei ranghi dell’amministrazione dello Stato risulterebbe ancora più esigua. Il fenomeno specifico si presta a varie osservazioni, ma in effetti non è la sostanza del problema bensì soltanto una sua conseguenza.

La prima domanda che ci si deve infatti fare è un’altra, ovvero: come mai abbiamo in Italia tre milioni e duecentomila statali? Che cosa mai ce ne facciamo? Si tratta di un esercito (si fa per dire) il cui organico, tanto per fare un paragone, risulta superiore anche a quello, 2.825.000 uomini e donne, che basta alle forze armate americane per far sventolare la bandiera a stelle e strisce, e eventualmente rovesciare bombe in testa a qualcuno, in ogni angolo del globo. 

Per definizione gli statali hanno per lo più funzioni amministrative, non produttive né tanto meno commerciali. La stima precisa di quanto siano più numerosi del necessario implica analisi complesse, ma una valutazione in sintesi è alla portata di chiunque fosse già in grado d’intendere e di volere venti - trent’anni fa. Basta fare un confronto fra quanta gente si vedeva allora in qualsiasi ufficio di imprese private allora e quanta se ne vede adesso; e rispettivamente quanta se ne vedeva e se ne vede negli uffici pubblici.  Il confronto è lampante dappertutto, ma giunge al culmine nel caso di ministeri romani. Tanto più entrando in quelli principali, storici, come il ministero degli Esteri o quello dell’Istruzione, sembra di entrare in un film degli anni ’50, ma spesso anche degli anni ’30. All’inizio ci si sente piacevolmente ringiovanire, ma poi spesso si ha l’impressione, talvolta preoccupante, di reincarnarsi nel proprio padre se non nel proprio nonno.

Non avendo il coraggio di affrontare il problema sul lato dell’organizzazione del lavoro, e prima ancora sul lato del diritto amministrativo, ormai da diversi decenni il ceto politico tenta di risolverlo prendendo il cane per la coda, ossia con il blocco dei concorsi pubblici e dei contratti. In questo modo all’inefficienza del sistema si aggiunge per soprammercato pure l’invecchiamento del personale. Quando infatti il personale più anziano comincerà ad andare in pensione in massa (nei prossimi dieci anni si tratterà di un milione di persone tra cui circa la metà dei dirigenti e degli alti funzionari), se le cose vanno avanti così ci si troverà con una macchina amministrativa dello Stato  non soltanto più che mai obsoleta ma anche sguarnita.

Siccome è vero che senza un’amministrazione statale efficiente chi governa non può fare niente di serio, una sua autentica riforma generale dovrebbe essere il primo e principale obiettivo di un governo che pretenda di essere riformatore. Siccome però si tratta di un’impresa tanto ardua quanto politicamente ingrata nessuno ci ha finora provato.  Fa più clamore e costa politicamente molto meno imbarcarsi in una riforma costituzionale che sarebbe molto meglio affidare a un’apposita Assemblea Costituente (clicca qui).

Con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, come diceva quel tale, immaginiamoci che presto si decida di porre mano a una tale riforma. Se  ciò fosse c’è subito un’altra cosa da temere: che ci si affidi ancora all’«accademia» dei baroni del diritto pubblico italiano ossia ai presunti esperti che ci hanno portato dove siamo adesso, e in particolare ai baroni del diritto amministrativo, ovvero ai padri dell’attuale groviglio inestricabile di leggi e regolamenti.  Non sarà possibile ignorarli ma occorre imboccare ben altre strade, in primo luogo quella del diritto pubblico di tradizione germanica uno dei cui frutti, la legislazione federale elvetica, è tutta quanta accessibile anche in lingua italiana. E così pure  la sua prassi amministrativa sia a livello federale e sia a livello cantonale grazie ai due cantoni in tutto o in parte di lingua italiana.