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CENTRALISMO

"Tavolo delle riforme"? Si torna allo Stato sabaudo

Tutto il dibattito sul "tavolo delle riforme", aperto all'interno del Pd, funziona come una spessa cortina fumogena sul reale intento del governo Renzi: tornare a uno Stato centralista che sopprime le autonomie locali e il principio di sussidiarietà, come ai tempi dei Savoia (e anche di più). Il caso di Roma, affidata a un prefetto, è un primo test.

Editoriali 11_09_2015
Roma, il prefetto Gabrielli

Il “tavolo sulle riforme”, che il Pd ha aperto ieri al proprio interno, rischia di rendere ancora più spessa la cortina fumogena al riparo delle quale il governo Renzi sta tentando di riportare lo Stato italiano al centralismo assoluto dell’Italia post-risorgimentale sabauda.

Come già dicevamo, ma come è più che mai il caso di ribadire, la riforma del Senato costituisce soltanto un dettaglio di un disegno complessivo di riforma generale della Repubblica che implica modifiche a circa un terzo della Costituzione. Se anche Renzi e il suo plenipotenziario in materia, il ministro Maria Elena Boschi, dovessero concedere una certa misura di elezione popolare indiretta dei senatori, il Senato non tornerebbe ad essere una semplice versione aggiornata del Senato del Regno (e di questo ci si deve pur compiacere), ma la situazione non cambierebbe in modo sostanziale. Il cuore della riforma non sta nel Senato bensì nell’insieme di modifiche con cui tutto il potere reale torna nelle mani del governo centrale, mentre tutto il sistema delle autonomie territoriali e funzionali viene scardinato con il conseguente ritorno del prefetto al suo antico ruolo di dominus territoriale in nome e per conto del Palazzo romano. Rispetto all’Italia sabauda il ruolo del prefetto anzi aumenta poiché si prospettano pure prefetti regionali nel ruolo di … grandi fratelli dei presidenti di Regione. Quel che sta accadendo a Roma merita di venire studiato attentamente. Quella di Roma, con il prefetto Gabrielli nel ruolo di “grande fratello” del garrulo sindaco Marino, non è la soluzione di emergenza per il caso-limite di Roma Capitale, un’amministrazione civica da paese di Pulcinella: è l’esperimento in condizioni estreme di un modello che poi, adducendo le più diverse scuse, si cercherà di applicare ovunque.

Per dare un’idea della resistenza che le burocrazie romane hanno sempre saputo opporre in materia, basti pensare che le autonomie regionali vennero realmente istituite solo 25 anni dopo che  la Carta costituzionale dell’Italia repubblicana ne aveva sancito l’esistenza, e che a quasi mezzo secolo dalla loro istituzione restano ancora a mezzo. In tale  clima la “clausola di supremazia” nei loro confronti che la riforma Renzi-Boschi assegna allo Stato è evidentemente lo strumento predisposto per il loro annichilimento come enti di governo democratico e per la loro riduzione ad apparati esecutivi a servizio dei prefetti regionali. Il tutto accompagnato da quello che militarmente si chiamerebbe un “fuoco di copertura”, ossia una campagna di costante enfatizzazione di qualsiasi caso di cattivo governo locale e regionale accompagnato da un silenzio assoluto su quel che non funziona nei ministeri e negli altri organi di potere centrale. Dall’esame complessivo della riforma emerge poi con chiarezza non soltanto l’assoluta mancanza di qualsiasi esplicito riferimento al principio di sussidiarietà, ma anche l’eliminazione di tutto ciò che potrebbe aprire spazi di attuazione a tale principio. Il combinarsi di questa riforma con la legge elettorale che ci si prospetta, con la scelta dei parlamentari affidata in pratica alle segreterie dei partiti, porta a una concentrazione del potere cui Renzi punta pro domo sua e nelle sue intenzioni a fin di bene, ma che ciononostante è controproducente e pericolosa.

In questo quadro, tutto il discutere che si fa sulla riforma del Senato è molto sospetto. Non è affatto vero che un Senato non elettivo sia la conditio sine qua non per il superamento del bicameralismo indifferenziato. Le due camere del Congresso degli Stati Uniti sono entrambe direttamente elette dal popolo. Ciononostante hanno competenze diverse costituendo così un grande e consolidato esempio di bicameralismo differenziato che funziona senza pasticci. Lo stesso dicasi delle due camere del Parlamento svizzero. Non ci sarebbe dunque alcun bisogno di rompersi la testa cercando chissà quale magica soluzione. Basterebbe un rapido giro su Wikipedia. Dunque la vera posta in gioco è tutt’altra: sono in gioco la libertà, la democrazia reale, l’autonomia della società nei confronti del potere in settori-chiave come la scuola, l’università e così via. Sarebbe il caso di rendersene bene conto.