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BRUXELLES

Tutti gli impegni italiani sul "fianco Sud" della Nato

Il jet russo abbattuto in Turchia, l'Isis, l'Afghanistan e la Libia... è tantissima la carne al fuoco dell'ultimo incontro dei ministri degli Esteri della Nato, in cui si è discusso di "fianco Sud". E se questa grande area del mondo, che va dal Mediterraneo all'Afghanistan, è tornata in primo piano, lo si deve anche all'impegno dell'Italia.

Esteri 02_12_2015
Paolo Gentiloni

Bruxelles è piena di poliziotti e soldati, sembra una città del Medio Oriente. E’ lo scenario giusto per parlare delle minacce che arrivano dal nostro fianco Sud, nel quartier generale della Nato, dove si tiene la conferenza dei ministri degli Esteri dell’Alleanza Atlantica.

L’abbattimento, da parte dei turchi, del cacciabombardiere russo Su-24, il 24 novembre scorso, ha colto tutti di sorpresa. La Nato è stata unanime a sostenere il suo alleato orientale. “Le informazioni che abbiamo sull’incidente – commenta il segretario generale Jens Stoltenberg – sono coerenti con la versione dei fatti fornita dalla Turchia. La Turchia ha diritto di proteggere la sua sovranità e il suo spazio aereo”. La Spagna fornirà batterie anti-missile e anti-aeree e la Danimarca le sue navi per la difesa della Turchia, mentre Usa e Gran Bretagna schiereranno forze aeree. “Nessun Paese può chiedere le nostre scuse. La nostra è stata un’azione difensiva. – aggiunge il premier turco Ahmet Davutoglu, nella conferenza stampa congiunta con Stoltenberg - Le nostre regole di ingaggio sono molto chiare e dichiarate in anticipo”. Davutoglu afferma che l’abbattimento del cacciabombardiere russo sia avvenuto dopo altre tre violazioni dello spazio aereo turco da parte dell’aviazione di Mosca “…e il confine turco-siriano è una questione di sicurezza nazionale prioritaria per la Turchia”.

“Noi comunque non abbiamo alcuna intenzione di affrontare un’escalation – prosegue Davutoglu - siamo pronti al dialogo al fine di prevenire situazioni simili in futuro sul confine turco-siriano. La Turchia vuole mantenere buone relazioni con la Russia e siamo pronti a collaborare con chiunque combatta contro l’Isis, ma voglio precisare che i bombardamenti russi in quell’area non sono rivolti contro l’Isis. Non c’è una sola postazione dell’Isis in quell’area della Siria. E i bombardamenti russi contro i civili stanno creando una nuova ondata di profughi ai nostri confini”. Ora, però, come afferma anche Stoltenberg, il compito difficile sarà quello di gettare acqua sul fuoco ed impedire un’escalation ancora peggiore. Ciò che è avvenuto in Turchia “ci fa comprendere quanto sia necessario sviluppare nuovi canali di comunicazione con la Russia”, spiega il segretario generale. Secondo il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, “Per quanto sia stretta la strada da percorrere, con la Russia stiamo condividendo un tentativo di trovare una soluzione politica alla crisi siriana, che è poi la madre di tutti i problemi. Si è aperto uno spiraglio: in Arabia Saudita si terranno i prossimi incontri per cercare di mettere in piedi la delegazione delle forze di opposizione ad Assad, quella che poi parteciperà al negoziato e c’è speranza che un terzo incontro a Vienna si tenga prima di Natale. Il secondo incontro di Vienna prevede che, all’avvio dei negoziati, corrisponda il cessate il fuoco. E questo è il mio primo auspicio. Il secondo, che esporrò domani (oggi, per chi legge) al mio collega turco, è che l’incidente del caccia russo, un incidente grave che coinvolge un nostro alleato della Nato, non abbia ripercussioni negative sul percorso di Vienna. Continuo ad augurarmi che giovedì si tenga un incontro di alto livello fra la diplomazia russa e quella turca a Belgrado. L’invito dell’Italia è quello alla de-escalation”.

L’Italia lavora di diplomazia ed è meno scontato vedere i risultati della nostra politica estera. Tuttavia, vista dall’interno della Nato, Roma ha svolto un ruolo di primo piano per riportare l’attenzione di tutti i membri verso il Mediterraneo. Contrariamente alle apparenze, il governo ha una politica di lungo periodo: essendo impossibile ogni dialogo con l’Isis, la strategia consiste nel combatterlo dando supporto a truppe locali ed impedire, investendo in cultura, che la follia jihadista dilaghi. Mentre quest’ultimo obiettivo è meno tangibile e non verificabile nel breve periodo, il primo è ben visibile: 750 addestratori italiani sono in Kurdistan a formare militarmente i peshmerga contro l’Isis. Perché non combattere direttamente gli jihadisti? Perché la memoria dell’Iraq è ancora troppo recente per riprovare con questa strategia. Il primato delle truppe locali, affidando soprattutto a loro il compito di liberare le città occupate dal Califfato, evita che il liberatore sia visto dalla popolazione come un “crociato”, un “colono”, o comunque un “intruso”, come ci spiegano fonti interne alla Nato. “Il nostro impegno è molto apprezzato dagli alleati – commenta il ministro degli Esteri – soprattutto nella specializzazione che ci siamo costruiti: l’addestramento delle forze di polizia e consolidamento delle istituzioni”. Eppure ci sono segnali che qualcosa possa cambiare anche in questo quadrante: proprio ieri gli Usa hanno annunciato l’invio di forze speciali nel Nord dell’Iraq e, per la prima volta, anche in territorio siriano.

Quando si parla di “fianco Sud” è molto difficile pensare in termini di guerra convenzionale, come siamo abituati da decenni. Alti funzionari della Nato con cui parliamo ci confermano che, contrariamente ai tempi della guerra fredda, la natura della minaccia esterna, oggi, è costituita dalla sua imprevedibilità. “Le nuove fonti di pericolo sono le più imprevedibili dall’inizio della storia della Nato – ci spiega l’ambasciatore Thomson (Gran Bretagna) – Non possiamo più tornare ai metodi del XX Secolo, servono risposte sempre diverse”. L’Isis era una piccola organizzazione terrorista. Poi è diventata una grande e ricca organizzazione terrorista. Oggi è uno Stato: benché non riconosciuto ufficialmente si comporta come tale.

Il carattere mutante della minaccia obbliga, come ci conferma un altro funzionario, a un cambiamento dell’Alleanza di lungo periodo, verso una struttura più flessibile. Ma intanto, quali sono le risposte alle crisi diffuse dal Nord Africa all’Afghanistan? In quest’ultimo paese, dove si sta combattendo la guerra più lunga mai affrontata dai paesi membri della Nato, la situazione è difficile, ma non disperata. Kunduz è stata recentemente espugnata dai Talebani, è vero. Ma è anche stata riconquistata con poche perdite. A causa della sicurezza il finanziamento alle forze nazionali afgane dovrà continuare fino al 2020. “L’Italia ha confermato la sua presenza per tutto il 2016 – ci spiega il ministro degli Esteri Gentiloni – Siamo una delle ‘quattro framework nations’ con una presenza militare di 900 uomini, basati soprattutto nell’Ovest afgano, in particolare nella provincia di Herat. Rispetto a 10-15 anni fa, è molto più evidente il legame fra l’impegno in Afghanistan e quello nella lotta al terrorismo. E anche, per un altro verso, il nesso fra la stabilizzazione afgana e l’andamento dei flussi migratori. Nella rotta balcanica, infatti, i migranti dall’Afghanistan costituiscono il secondo o terzo gruppo, numericamente parlando.

Per quanto riguarda la Libia, la Nato non è la prima istituzione internazionale che può rispondere al caos della guerra civile. Prima di pensare a una missione di peacekeeping si deve trovare una soluzione politica per trovare una soluzione di compromesso fra i due governi (di Tripoli e Tobruk) in guerra. Ai tempi dell’ultimo summit Nato nel Galles, non esisteva ancora uno Stato Islamico in Libia. Adesso sì. Anche in questo caso, è soprattutto l’Italia che sta attirando l’attenzione degli altri alleati su quel bubbone jihadista che si è consolidato a Sirte e minaccia di espandersi ancora. Ora anche la Libia è considerata come tassello fondamentale dell’arco della crisi nella strategia della Nato, dunque qualcosa cambierà. Manderemo forze speciali assieme agli americani? Nell’incontro bilaterale fra Gentiloni e Kerry si è parlato soprattutto di Libia, come spiega il nostro ministro degli Esteri: “Ci siamo concentrati anche sulla crisi libica, sull’impegno che Italia e Usa cercheranno di sviluppare nelle prossime settimane per convogliare il sostegno della comunità internazionale al dialogo fra le parti libiche. La scelta finale spetta ai libici, ma al fianco del lavoro di mediazione che l’inviato dell’Onu Martin Kobler sta svolgendo, gli Usa e l’Italia possono coinvolgere altri paesi (della stessa regione e non solo) per dare un contributo decisivo, per rendere possibile questo accordo”.