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BRUXELLES

Ue e Turchia, tutte le incognite dell'accordo sui rifugiati

E’ iniziato ieri e si concluderà oggi il nuovo vertice fra Ue e Turchia per cercare di risolvere la grande crisi dell’immigrazione. L’intento è quello di affrontare il fenomeno alla sua fonte, sull’altra sponda dell’Egeo, inducendo la Turchia a riprendere i rifugiati che fuggono in Grecia e tentano la traversata dei Balcani. Benché ci sia la volontà di raggiungere un accordo, i negoziati saranno molto difficili.

Esteri 18_03_2016
Profughi nell'Egeo

E’ iniziato ieri e si concluderà oggi il nuovo vertice fra Ue e Turchia per cercare di risolvere la grande crisi dell’immigrazione. L’intento è quello di affrontare il fenomeno alla sua fonte, sull’altra sponda dell’Egeo, inducendo la Turchia a riprendere i rifugiati che fuggono in Grecia e tentano la traversata dei Balcani. Benché ci sia la volontà di raggiungere un accordo, i negoziati saranno molto difficili, per tante ragioni.

Prima di tutto, anche se dovesse essere firmato oggi, un accordo non risolverebbe la spinosa questione delle decine di migliaia di migranti che sono già arrivati in Grecia e lì si sono fermati, a causa della chiusura delle frontiere della Macedonia. In una prima bozza di accordo, i primi ad essere rimpatriati avrebbero dovuto essere proprio loro: i circa 10mila emigranti stipati nelle isole greche e 35mila diffusi fra Grecia continentale e valico di Idomeni (fra Grecia e Macedonia), ma la Turchia preme perché i respingimenti riguardino solo coloro che proveranno a sbarcare in Grecia dopo una data futura che verrà fissata nel corso del negoziato. Quindi resta all’Ue il problema di dove mettere tutta la gente già arrivata: in tutto 133mila persone solo nei primi due mesi e mezzo del 2016.

Da quando scatterà la prossima data dei respingimenti, la quantità di emigranti che potrà essere rimandata sulle coste turche è comunque limitata a 72mila persone. Come mai proprio 72mila? Perché è la quota dei rifugiati già “spartiti” fra i membri europei dopo gli accordi dello scorso settembre 2015 e non ancora ricollocati. Ma perché sono misurati in base alla disponibilità di posti nell’Ue e non di quelli in Turchia? Perché lo schema è quello di “uno dentro, uno fuori”: per ogni rifugiato (o presunto tale) che viene reimbarcato per la Turchia, l’Ue si prenderà carico di un rifugiato registrato nei campi turchi. La quota di 72mila rifugiati è comunque considerata dai negoziatori europei come “provvisoria”. Se lo schema “uno dentro uno fuori” dovesse funzionare come previsto, farebbe da deterrente per tutti i futuri profughi: vedrebbero che non conviene cercare rifugio in Grecia, perché ciò comporterebbe un rientro forzato in Turchia, dove finirebbero in fondo alla lista dei candidati ad essere mandati in Europa legalmente. Ma se non dovesse fare da deterrente? A quel punto l’Ue dovrebbe risolvere un nuovo problema di distribuzione dei rifugiati. Considerando la ferma opposizione dei paesi dell’Europa centrale, non sarebbe una cosa facile. Inoltre lo schema diverrebbe ingestibile, perché un conto è scambiare 72mila clandestini con 72mila rifugiati registrati, tutt’altro è scambiare 1 milione di clandestini con 1 milione di rifugiati. E stiamo parlando, comunque, di una popolazione di 2,7 milioni di rifugiati in Turchia.

Il secondo problema è di natura legale, perché, come constatava ieri la presidente lituana Dalia Grybauskaite, lo schema “uno dentro, uno fuori” è “ai limiti della legalità internazionale”. L’Onu, che non è coinvolta nel negoziato turco-europeo, ha fatto presente che queste linee guida già volano la Convenzione Europea per i Diritti Umani, in base alla quale i richiedenti asilo devono essere presi in esame come casi singoli e non collettivamente. Quindi, il giorno che la Grecia dovesse rimandare in Turchia migliaia di persone in un blocco solo, senza esaminare ogni singolo caso, violerebbe la Convenzione. Inoltre, come emerge anche dagli scorsi accordi sul ricollocamento dei rifugiati, la Turchia non è considerata dall’Ue come un “luogo sicuro” a cui rimandare i richiedenti asilo. I rifugiati, nei campi turchi, non godono di un asilo politico pieno, ma di una più blanda protezione internazionale. Anche da questo punto di vista, potranno essere sollevati problemi di natura legale. Amnesty International, tanto per fare un esempio, ha già annunciato che non accetterà i termini dell’accordo così formulati.

Il terzo problema è di natura politica ed è ancor più difficilmente sormontabile. La Turchia chiede, in cambio di un accordo sui rifugiati, un aiuto economico molto consistente: 6 miliardi di euro. Mesi fa, l’Ue ne aveva promessi 3, che però non sono stati erogati. Ankara ora vuol vedere i 3 miliardi subito e gli altri 3 il prima possibile. L’Ue mirerà, a Bruxelles, a vincolare la seconda tranche alla buona condotta del governo turco: solo se rispetterà i patti, vedrà il resto dei soldi promessi. Il mercato “dei tappeti” sarà sicuramente difficile e sta provocando già la reazione indignata di alcuni dei governi presenti, fra cui quello del Belgio che ha già comunicato che “non accetta ricatti”. Ma non è nemmeno questa la condizione più difficile: il premier turco Davutoglu chiede anche l’eliminazione del visto di ingresso ai paesi Ue per i cittadini turchi (entro giugno) e un’accelerazione del processo di entrata della Turchia nell’Unione. In entrambi i casi incontra la ferma opposizione di almeno uno degli Stati membri: Cipro, che è neppure riconosciuta ufficialmente dalla Turchia e non intende affatto riconoscere, a sua volta, Cirpo Nord, la regione occupata da Ankara nella guerra del 1974. L’Ue inoltre pone una settantina di condizioni prima di concedere ai turchi un vero processo di integrazione, condizioni soprattutto di natura tecnica, ma anche di rispetto di standard democratici chiesti dall’Ue. E proprio in questo periodo, fra guerra ai curdi e chiusure arbitrarie dei giornali d’opposizione, il presidente Erdogan sta facendo tutto il possibile per dimostrare di essere lontano da questi standard.

A tutto questo si deve aggiungere un'incognita non da poco. Qui non si sta discutendo di quote carbonio o di quote di olio da importare, ma di persone in carne ed ossa, adulte e dotate di ragione. Non persone qualunque, ma uomini, donne e bambini che non hanno più niente da perdere, sopravvissuti a fame, bombardamenti e assedi, a un percorso molto pericoloso sulle carrette del mare e ad anni di permanenza in campi profughi, in condizioni disperate. Alla notizia del rinvio in Turchia, potrebbero non essere d'accordo. Potrebbero anche ribellarsi.

Aggiornamento delle 19: C’è accordo sulle ultime linee guida: a partire dalla mezzanotte di domenica 20 marzo, tutti coloro che entreranno illegalmente nell’Unione Europea dalla Turchia, verranno rimandati indietro, fino a 72mila persone, raggiunte le quali decadrà e dovrà essere rinegoziato. L’accordo esclude i 132mila immigrati che sono già arrivati in territorio dell’Ue nei primi due mesi e mezzo dell’anno e le decine di migliaia di emigranti stipati nelle isole greche e sul confine fra Grecia e Macedonia, costretti a vivere in condizioni disperate. Il piano “uno dentro, uno fuori” ha immediatamente causato preoccupazioni legali in merito al rispetto dei diritti umani, perché la Turchia non è un paese firmatario della convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e Amnesty International l’accusa di aver già costretto rifugiati e richiedenti asilo a tornare in Siria.

In cambio dell’accettazione di questo schema, la Turchia ha ottenuto 3 miliardi di euro per la gestione dei campi profughi e la promessa di altri 3 miliardi, dopo l’esaurimento della prima tranche. Entro giugno dovrebbe essere perfezionato l’accordo per permettere ai cittadini turchi di viaggiare in Europa senza visto. Ma, entro aprile, la Turchia deve soddisfare almeno 72 condizioni tecniche poste da Bruxelles. Niente da fare, invece, per l’accesso della Turchia nell’Ue. Per evitare che il governo di Cipro ponesse il veto e facesse saltare il tavolo negoziale, non è stata data alcuna garanzia, né fissata alcuna agenda dei lavori. La Turchia ottiene solo una vaga promessa di esser presa in considerazione come paese candidato.

Ora, però, inizia la parte difficile: l’accordo dovrà essere messo in pratica.