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EDITORIALE

Unioni civili, vescovi che hanno perso la memoria

Solo nove anni fa la CEI riteneva dovere dello Stato non riconoscere alcun tipo di legame che non fosse il matrimonio. Oggi invece il segretario della CEI ritiene doveroso che lo Stato riconosca le unioni gay (basta che non siano assimilate al matrimonio). Qualcosa evidentemente non quadra.
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Editoriali 14_01_2016
Monsignor Galantino

Si sente talmente tanto parlare di “nuova Chiesa” che molti vescovi si sono calati perfettamente nella parte e ignorano totalmente non solo ciò che la Chiesa (quella “vecchia”) ha creduto e annunciato per duemila anni, ma anche le indicazioni più recenti. Nei giorni scorsi abbiamo già fatto riferimento alla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede a proposito dei progetti di riconoscimento delle unioni omosessuali (2003), che spiega con chiarezza per quale motivo i cattolici non possono sostenere qualsiasi tipo di riconoscimento giuridico delle relazioni gay. Documento importante, approvato da Giovanni Paolo II, su cui i diversi vescovi e cardinali intervistati in questi giorni dalla grande stampa non hanno neanche pensato di misurarsi. Roba da “vecchia Chiesa”, evidentemente.

Ma c’è anche dell’altro: ieri in una intervista al Corriere della Sera, il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Nunzio Galantino, pur riaffermando l’unicità del matrimonio a cui non possono essere assimiliate altri tipi di unione, ha però detto che è dovere dello Stato legiferare sulle «unioni di tipo diverso». A ben vedere è coerente con quanto fin qui sempre sostenuto da monsignor Galantino – e non solo da lui – nel desiderio di prendere atto della realtà.

Il che però equivale a dire che non erano realisti i vescovi italiani nove anni fa, quando – era il marzo 2007 – pubblicarono un documento molto preciso che chiudeva a qualsiasi tipo di legalizzazione di quelle che allora venivano chiamate unioni di fatto. La realtà sociale nove anni fa non era molto diversa da quella attuale se non per la forte pressione ideologica che c’è oggi a proposito delle unioni gay. Pressione che evidentemente non trova grossa resistenza nella CEI di oggi. Il documento del 2007 – “Nota a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto” – centrava la sua riflessione sul bisogno dei bambini e sul bene comune della società, per i quali è necessaria la stabilità delle famiglie fondate sul matrimonio tra uomo e donna.

Se questo è il punto centrale, allora «la legalizzazione delle unioni di fatto è inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo. Quale che sia l’intenzione di chi propone questa scelta, l’effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del resto, la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume». 

Il concetto è molto chiaro – nessuna legge in materia è buona - e vale per tutte le unioni di fatto. Lo Stato è chiamato a riconoscere soltanto il patto matrimoniale. Non solo, si fa riferimento esplicito a diritti che sono «propri dei coniugi e che appartengono solo a loro», e si può comprendere che non si tratta soltanto dei figli: ci sono anche diritti sociali ed economici, che oggi la linea della CEI – esplicitata attraverso il quotidiano Avvenire e ribadita da monsignor Galantino – vorrebbe estesi in toto ai conviventi, anche dello stesso sesso.

La Nota, poi prosegue: «Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile». Parole che non hanno bisogno di commento: oggi invece monsignor Galantino – insieme a molti altri - sostiene di fatto l’equivalenza tra convivenze etero e omosessuali, spostando l’attenzione soltanto sul problema delle adozioni e dell’utero in affitto.

È vero che dal punto di vista canonico, la Conferenza episcopale ha soltanto compiti di coordinamento e non magisteriali; ed è altrettanto vero che monsignor Galantino della CEI è soltanto il segretario e non il presidente o vice-presidente, e non ha quindi alcun titolo per parlare a nome dei vescovi italiani. Però siccome egli tende a presentarsi di fatto come portavoce dei vescovi italiani e come tale viene trattato dai media, in assenza di voci che lo contestino dobbiamo ritenere che questo sia l’indirizzo almeno della maggioranza dell’episcopato (perché in realtà sappiamo che ci sono anche vescovi che non hanno perso la memoria e soprattutto il legame con la realtà).

E allora la domanda sorge spontanea: siccome la storia della “nuova Chiesa” è soltanto un argomento ideologico e l’insegnamento non conosce discontinuità, come è possibile che i vescovi italiani oggi contraddicano così clamorosamente ciò che proclamavano con certezza solo pochi anni fa (in gran parte sono gli stessi)? E senza nemmeno sentire il bisogno di spiegarsi? Come si fa a dire oggi che è dovere dello Stato regolare le convivenze omosessuali, quando appena pochi anni fa si scendeva in piazza per sostenere che è dovere dello Stato non riconoscere neanche le unioni di fatto eterosessuali? 

Peraltro la Nota CEI del 2007 è perfettamente coerente con la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2003, e non si tratta di princìpi astratti o semplicemente etici. Che qualsiasi forma di riconoscimento di unioni di fatto sia «deleteria per la famiglia» non è un pallino della Chiesa, è ciò che la realtà dei Paesi che già sono avanti su questa strada dimostra in modo inequivocabile. La legittimazione di unioni di fatto, unioni civili o come le si voglia chiamare è solo il primo passo di un cammino di distruzione della famiglia.

Si può essere così ciechi da non vedere la realtà che è sotto i nostri occhi?