Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
DISORDINI STUDENTESCHI

Università pro-Palestina, un nuovo Sessantotto negli Usa

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L'Università Columbia manda a casa gli studenti e chiama la polizia. Arresti anche a Yale. La protesta pro-Palestina negli Usa degenera e diventa violenta contro gli ebrei.

Esteri 24_04_2024
Accampamento pro-Palestina alla Columbia University (La Presse)

Dopo un cinque giorni di proteste e occupazioni pro-Palestina, le autorità degli atenei americani hanno iniziato a rispondere chiamando la polizia e adottando altre misure d’emergenza. Lo scontro provocato dai collettivi studenteschi è giunto al calor bianco e la situazione sta degenerando in un nuovo Sessantotto.

Minouche Shafik, direttrice della prestigiosa Columbia University, lunedì ha deciso di chiamare la polizia per riportare l’ordine e far arrestare i manifestanti. Gli agenti hanno effettuato 113 arresti. Ma come si è arrivati a tanto? Era da tre decenni che non si assisteva a misure repressive così drastiche nell’ateneo. Da giovedì scorso, i manifestanti dei collettivi pro-Palestina, spesso neppure studenti iscritti alla Columbia, campeggiavano di fronte all’università, impedendo l’accesso a studenti e professori ebrei e israeliani. Il 22 aprile un professore israeliano della scuola di economia della Columbia University si è visto negare l’ingresso al campus principale. In un post su X, Shai Davidai afferma che il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso al campus è che l'università “non è in grado di proteggere la mia sicurezza in quanto professore ebreo”. Poco prima di questo episodio, il rabbino Elie Buechler aveva raccomandato agli studenti ebrei di tornare a casa e di non recarsi all’università, per motivi di sicurezza.

Uno studente ebreo, Jonathan Lederer, racconta la sua esperienza a The Free Press, dopo una contro-manifestazione pacifica di fronte alla Columbia: «Anche quando abbiamo cantato testi come “Non vogliamo più combattere, non ci sarà più guerra”, siamo stati accolti con ostilità. I portatori di kefiah mascherati ci hanno affrontato faccia a faccia, cercando di intimidirci. Hanno gridato insulti contro Israele. Ci hanno detto: “Voi siete tutti consanguinei”. Ci hanno gettato acqua in faccia. Questi gruppi non possono essere definiti “pro-Palestina”. Sono sostenitori attivi di Hamas e lo dicono esplicitamente: “Noi diciamo giustizia, voi cosa? Bruciate Tel Aviv!”, ha scandito un gruppo davanti ai cancelli della mia scuola. “Hamas, noi vi amiamo. Sosteniamo anche i vostri razzi”».

Per cercare di far fronte alla situazione, la Columbia ha annunciato l’assunzione di 111 addetti alla sicurezza aggiuntivi che possano garantire sicurezza extra durante la Pasqua ebraica. Ma non basta: è di ieri, 23 aprile, la decisione di passare alle lezioni online, “per chi vuole” anche per tutto il semestre. Si è trattato di una resa, di fatto: agli ebrei a cui non viene garantita la sicurezza, si permette di seguire le lezioni da casa.

Altri arresti sono stati eseguiti dalla polizia in un’altra prestigiosa università, Yale, nel Connecticut. L’intervento degli agenti si è concluso con l’arresto di altri 47 studenti che protestavano da più di una settimana. I manifestanti si erano accampati in Beinecke Plaza a New Haven, proprio di fronte al prestigioso istituto. Anche in quel caso avevano formato delle catene umane, per impedire a studenti e professori israeliani di accedere all’istituto.

L'Università del Minnesota ha dichiarato che nove manifestanti del campus di Twin Cities sono stati arrestati martedì mattina dopo aver rifiutato la richiesta di smantellare il loro accampamento.

Nel frattempo, però, la protesta è dilagata in tutti gli Usa. Questa settimana gli studenti pro-palestinesi di molte altre università hanno seguito l'esempio della Columbia e hanno inscenato le loro proteste nei campus. Le manifestazioni in scuole come l'Università della California, Berkeley, il Massachusetts Institute of Technology, l'Università del Michigan, l'Università di New York, l'Università di Stanford e l'Università Tufts sono la più grande escalation finora registrata delle tensioni nei campus per la guerra iniziata in autunno.

Le proteste di Yale, così come quelle delle altre università, erano state organizzate per chiedere tutte la stessa cosa: boicottaggio e disinvestimento ai danni di Israele, con il pretesto che le università collaborano a programmi che potrebbero avere anche una valenza militare. Un qualcosa di analogo è successo anche in Italia, alla Normale di Pisa, che ha accettato le richieste dei collettivi di sinistra. Negli Usa, Yale ha invece risposto ai manifestanti che non ha alcuna intenzione di assecondarli, in quanto «la produzione di armi per la vendita autorizzata non raggiunge la soglia di grave danno sociale, prerequisito per il disinvestimento».

Oltre a chiamare la polizia e tornare alle lezioni online (come ai tempi del Covid), altre università hanno chiuso i loro campus in risposta alle proteste. La California State Polytechnic University di Humboldt, ad esempio, ha dichiarato che rimarrà chiusa fino a mercoledì (oggi, per chi legge), poiché i manifestanti continuano a occupare un edificio del campus. «È una situazione pericolosa e instabile», ha dichiarato l'università.

Le dimostrazioni potrebbero sconvolgere anche la stagione delle lauree. Gli amministratori delle università di tutta la nazione stanno ripensando ai loro piani per le lauree di primavera, nel tentativo di salvaguardare gli studenti e gli ospiti, oltre che la loro stessa reputazione.

Ieri (23 aprile), i Repubblicani in Senato hanno inviato una lettera in cui esortano il procuratore generale Merrick Garland e il segretario all’Istruzione Miguel Cardona a riportare l’ordine nei campus. «Dovete agire per ripristinare l’ordine e proteggere gli studenti ebrei nei nostri campus universitari», hanno dichiarato i senatori.

Il problema delle università parte dalla testa, come dimostrano le dimissioni rassegnate dalle presidi delle università di Harvard e della Pennsylvania. Entrambe sono state investite da forti polemiche dopo che, in audizione in Congresso, non avevano condannato l’antisemitismo nelle loro istituzioni. Anche la direttrice della Columbia, Minouche Shafik, all’indomani dell’11 settembre, aveva dichiarato che «il terrorismo può essere considerato una forma di protesta politica».

Contano sicuramente i soldi dal Qatar (miliardi investiti nelle università americane, dall'11 settembre in poi) e degli altri regni arabi del Golfo. Hanno sicuramente contribuito alla diffusione del pensiero pro-arabo e anti-israeliano, visto che le idee dei finanziatori arrivano sempre assieme ai finanziamenti. Ma conta soprattutto la nuova rivoluzione culturale in corso negli Stati Uniti, quella che il lessico popolare ha ribattezzato "rivoluzione woke". È una rivoluzione anti-razzista, nata dalle proteste contro la violenza della polizia ai danni dei neri, rafforzatasi dopo l'uccisione di George Floyd. Ma nei campus è diventata una protesta trasversale, culturale, contro tutto ciò che è occidentale, bianco, maschile, dunque patriarcale, colonialista, suprematista. In poche parole: tutto ciò che richiama la cultura giudaico-cristiana. Per proprietà transitiva, anche Israele, Stato ebraico fondato da un popolo perseguitato, in questa ottica ideologica diventa Stato colonialista e bianco.