Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
IL MARTEDI' ELETTORALE

Usa, la candidata del Quarto Potere

Oggi è il gran giorno negli Stati Uniti. Si decide chi sarà il prossimo presidente: Hillary Clinton o Donald Trump? La media dei sondaggi nazionali danno i due candidati testa a testa. Ma le testate giornalistiche statunitensi, dalle più piccole alle più grandi, hanno già fatto la loro scelta esplicita: deve vincere Hillary Clinton.

E L'FBI CHIUDE IL CASO CLINTON di M. Respinti

Editoriali 08_11_2016
Hillary Clinton in conferenza stampa

Oggi è il gran giorno negli Stati Uniti. Si decide chi sarà il prossimo presidente: Hillary Clinton o Donald Trump? La media dei sondaggi nazionali dà i due candidati testa a testa. Ma le testate giornalistiche statunitensi, dalle più piccole alle più grandi, hanno già fatto la loro scelta esplicita: deve vincere Hillary Clinton, indipendentemente da quel che pensa il loro pubblico.

Che i media italiani, a un oceano di distanza, abbiano optato per la candidata democratica è già stato fatto rilevare da Robi Ronza su La Nuova Bussola Quotidiana. I nostri corrispondenti dagli Stati Uniti, evidentemente, sono perfettamente allineati con i loro colleghi d’oltre oceano. Due studi lo dimostrano, numeri alla mano. Il primo dato, più oggettivo, riguarda le donazioni dei giornalisti, direttori inclusi, alle due campagne elettorali: quella della Clinton ha ricevuto il 96% del finanziamento proveniente dalle tasche dei giornalisti. L’altro studio misura l’orientamento politico dei servizi sui tre maggiori network nazionali: il 91% è contro Donald Trump.

Partiamo dal discorso sui soldi. Il Center for Public Integrity rileva che le donazioni dei giornalisti alle due campagne elettorali ammontino a un totale di 396mila dollari. Da questa cifra sono escluse le micro-donazioni, inferiori a 200 dollari, per le quali non esiste alcun obbligo di rivelare la fonte. Queste micro-donazioni non sono statisticamente rilevanti. Andando, invece, ai finanziamenti superiori ai 200 dollari, vediamo che gli operatori dei media hanno dato 382mila dollari alla campagna di Hillary Clinton e solo 14mila a quella di Donald Trump. Un rapporto di 96 a 4, se espresso in termini percentuali. Gran parte delle grandi testate nazionali vieta tassativamente ai propri giornalisti di finanziare la politica, per evidenti motivi di conflitto di interessi. Dunque, non ci sono e non ci potranno mai essere fondi provenienti da chi lavora al New York Times, alla Cnn o all’Associated Press, giusto per dirne tre molto famose. Ma giornalisti influenti come Larry King o dipendenti di una grande agenzia quale è la Reuters, una direttrice famosa come Anna Wintour di Vogue, persino giornalisti del network Fox (filo-repubblicano), i direttori e le direttrici di New Republic, Elle, Vanity Fair, Hollywood Reporter, sono grandi donatori della campagna della ex first lady. Quelli che possono farlo, insomma, danno il loro apporto finanziario alla Clinton. E quelli che non possono? Danno il loro contributo in altri termini, non monetari ma non meno preziosi.

Il 91% dei servizi sui tre maggiori network nazionali che riguardano Donald Trump, sono critici o apertamente ostili al candidato repubblicano. Lo rileva il Media Research Center e il conflitto di interessi potrebbe essere, in realtà, ancora più esteso. WikiLeaks ha pubblicato proprio ieri oltre 8mila email trafugate, da cui si ricava l’impressione che i giornalisti di testate del calibro di Cnn e Washington Post, siano quasi organici al Partito Democratico. In un’email, per esempio, è la Cnn che chiede alla Democratic National Convention quali domande rivolgere a Donald Trump. L’editorialista Dana Milbank, del Washington Post, si è rivolta sempre agli uffici della Democratic National Convention per ottenere il materiale necessario a scrivere il suo articolo “Le 10 piaghe di Donald Trump”. Glenn Thrush, di Politico, ha inviato un suo pezzo a John Podesta (capo della campagna elettorale di Hillary Clinton) per una revisione, prima di pubblicarlo. Sono dettagli non da poco, che emergono, purtroppo, da materiale filtrato e trafugato, da prove non ufficiali, ma non per questo meno attendibili. Il vero problema è che questa campagna è esplicita. Non c’è bisogno del lavoro degli hacker per scoprirlo: giornalisti e direttori ormai scrivono che l’abbandono dell’imparzialità, per fermare Trump, è una sorta di “dovere morale”. Il New York Times ha cambiato le sue regole, permettendo ai suoi giornalisti di mischiare le opinioni ai fatti. Non che prima non lo facessero, ma ora, nei riguardi di Donald Trump, è diventata una norma chiaramente espressa. L’editoriale di settembre firmato da tutto il direttivo del quotidiano newyorkese è intitolato “Perché Donald Trump non dovrebbe diventare presidente”. I toni sono molto più perentori rispetto a quelli di un normale articolo di endorsement o di scelta di campo: gli argomenti citati spiegano perché Trump sia considerato letteralmente un candidato illegittimo.

Da questa tendenza è difficile tornare indietro. Una volta che si è compiuta la scelta di mischiare il giudizio politico alla descrizione dei fatti, una testata si vota a una causa. Perde volontariamente la sua obiettività, si lega a un lettorato di una sola parte, diventa quel che è da quattro decenni La Repubblica, in Italia: un quotidiano-partito. C’è da chiedersi cosa siano diventati i media, non solo in Italia. Fino agli anni 80 erano accusati di essere troppo proni a logiche di mercato, di seguire troppo le mode, l’audience e gli sponsor. Oggi abbiamo giornalisti che vanno contro le leggi del mercato, pur di sostenere la loro parte politica. Che, guarda caso, è la sinistra progressista.  In Usa, sondaggi alla mano, la Clinton e Trump sono testa a testa, la copertura mediatica politica dovrebbe essere al 50% (o poco meno) con la destra e al 50% (o poco più) con la sinistra, se fosse il pubblico a dettare la linea editoriale. Oggi assistiamo a un quarto potere americano che è al 90% schierato a sinistra. E quindi vuol dire che non vuole più informare il suo pubblico attuale e potenziale, ma ri-orientarlo nel migliore dei casi. E nel peggiore: mira a rieducarlo.