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PROCESSO

Vatileaks, una sentenza e tante domande

La sentenza del tribunale vaticano sul caso Vatileaks offre diversi spunti di discussione e apre, così come è stata formulata, a diversi e inquietanti interrogativi. Ad esempio, se il sacerdote e la ex consulente sono stati condannati per violazione e divulgazione del segreto, i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, che hanno ricevuto quanto deriva dal segreto violato, non sono responsabili a titolo di concorso? Ma è solo una di tante.

Ecclesia 09_07_2016
Sentenza Vatileaks: quanti dubbi

Il “dispositivo della sentenza del Tribunale vaticano” sul caso Vatileaks, pubblicato per intero su L’Osservatore Romano, ritiene che sia stato commesso un solo reato -  quello della divulgazione di notizie destinate a restare segrete -, e solo da due soggetti, monsignor Angel Lucio Vallejo Balda e Francesca I. Chaouqui, che per questo sono stati condannati. I giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi non sono stati ritenuti responsabili perché per loro ha prevalso il difetto di giurisdizione; così si legge nel dispositivo: «lo svolgimento processuale, la cui istruzione si è perfezionata solamente nel corso del dibattimento, ha evidenziato che i fatti contestati agli imputati sono avvenuti al di fuori del proprio ambito ordinario di giurisdizione». 

La pronuncia del tribunale contiene però anche il richiamo alla «libertà di manifestazione del pensiero» e alla «libertà di stampa»: il primo dubbio che sorge è come si lega questo richiamo al difetto di giurisdizione, che ha carattere pregiudiziale e assorbente. In altri termini: se il tribunale vaticano afferma di non potersi interessare della posizione dei due giornalisti perché quanto loro imputato è estraneo al proprio ambito di giurisdizione, come spiega un’affermazione così impegnativa come il richiamo alla libertà di stampa, che nel dispositivo viene collocata proprio con riferimento alla loro posizione? La constatata assenza di giurisdizione non avrebbe imposto di fermarsi sulla soglia del merito, senza oltrepassarla? 

A questa prima perplessità se ne aggiungono altre: se il sacerdote e la ex consulente sono stati condannati per violazione e divulgazione del segreto, Nuzzi e Fittipaldi, che hanno ricevuto quanto deriva dal segreto violato, non sono responsabili a titolo di concorso? A tale proposito il dispositivo precisa «che gli stessi imputati non rivestono, ai sensi del diritto penale, la qualificazione di pubblici ufficiali né sono ad essi equiparati»: l’articolo 116 bis del codice penale vaticano punisce questo reato solo se il responsabile è pubblico ufficiale secondo le norme vaticane. I dubbi crescono: 

a) pure questa è una valutazione di merito, che però presuppone l’esercizio della giurisdizione; ma come è possibile se la giurisdizione è stata esclusa? b). Si può concorrere nel reato del pubblico ufficiale, anche se non si possiede questa qualifica. Esempio: solo un pubblico ufficiale può commettere una concussione; se però X, che non ha tale qualifica, collabora consapevolmente col pubblico ufficiale per fargli incontrare la persona che sarà costretta a fornire una utilità al pubblico ufficiale, si vuole sostenere che X sia innocente solo perché non ha la qualifica di pubblico ufficiale?    

c)  La libertà di stampa e di manifestazione del pensiero non sono illimitate. Dal dispositivo pare però che valgono nella loro pienezza pur se quanto divulgato proviene da un comportamento che costituisce reato, tant’è che se ne condannano i responsabili. Ma è logico? c) Libertà di stampa e di manifestazione del pensiero - precisa il dispositivo - sarebbero garantite addirittura dal “diritto divino”. Prescindendo per un momento dal merito, pare in questo modo che la distinzione che S. Tommaso opera fra diritto divino, diritto naturale e diritto positivo sia considerata superata, vista la confusione fra i differenti livelli. 

Saremmo lieti di avere qualche lume su questi interrogativi. Nel frattempo è lecito prendere atto del bilancio del processo terminato ieri: 1). Secondo le dichiarazioni iniziali, avrebbe dovuto chiudersi prima dell’apertura del Giubileo, e invece lo ha attraversato per una buona metà; 2). Fittipaldi e Nuzzi non avrebbero potuto desiderare uno spot migliore: hanno vissuto per mesi i panni delle vittime della neo-inquisizione vaticana e ciò è stato un volano efficace e gratuito per i loro libri; 3). È passata l’immagine di una Chiesa che - con l’eccezione del Papa - si chiude a ogni sforzo di trasparenza al proprio interno. Il Corriere della sera di ieri ha avuto buon gioco nel sostenere che si è trattato di un “Processo alla libertà di stampa"; 

3). L’esito - per il tenore letterale del dispositivo - permette ai due giornalisti di ergersi addirittura a paladini della pulizia all’interno della Chiesa, come hanno dichiarato più volte, e ribadito fino a ieri, senza che nessuno li abbia incaricati di questo. E’ una strana pulizia quella che utilizza documenti che devono restare segreti - tant’è che due persone sono condannate per averli divulgati - e che ha come introiti non la remunerazione di una colf, ma i cospicui introiti della vendita dei loro libri; 4). Non solo paladini di pulizia, ma pure esegeti della volontà del Papa, con la riproposizione della dialettica fra un Pontefice che vuole trasparenza e una Curia che la impedisce. In tal modo, oltre all’ingiusta generalizzazione al negativo di chi lavora per la Chiesa, si attira la simpatia del “mondo” per il rispetto che il Vaticano mostra per la libera manifestazione del pensiero, a scapito della tutela alla sacrosanta riservatezza di atti che per la Chiesa non vanno diffusi.

Fin dall’inizio la vicenda ha mostrato una gestione discutibile. Formalmente si può ritenere il difetto di giurisdizione al termine di un processo, ma il carattere pregiudiziale che esso ha avrebbe imposto maggiore ponderatezza all’inizio. In apertura del giudizio il tribunale ha vietato agli imputati di farsi difendere da avvocati che non fossero iscritti nell’albo speciale della Città del Vaticano; i giudici avevano la possibilità di derogare a tale preclusione, ammettendo avvocati che legittimamente esercitano nello Stato italiano, ma non hanno usato tale discrezionalità. Non è un dettaglio formalistico: la lettura all’esterno è stata quella di limitare la difesa e di imbastire un “processo medievale” (definizione di Nuzzi). 

Per concludere che cosa? Che se i reati da sottoporre al giudizio del tribunale vaticano fossero di scarso peso la struttura giudiziaria della S. Sede e il profilo professionale dei magistrati non esigerebbero cure particolari. Ma se, come è accaduto, il livello di impegno si eleva - si rendono necessarie, per es., indagini e processi su episodi di riciclaggio, che hanno motivato il recente inserimento di questo reato nel codice penale vaticano - il rischio di nuovi infortuni cresce. Nulla si improvvisa, neanche il lavoro di pubblico ministero o quello di giudice (per quanto le performance di pm e giudici italiani spesso dimostrino il contrario): sono incarichi che richiedono quella professionalità e quella dedizione dalle quali derivano competenza ed esperienza. 

Decisioni sbagliate, oltre a pesanti ricadute mediatiche, potrebbero essere censurate, per es., dalla Corte Edu, ovvero da organismi finanziari internazionali. Con quali conseguenze per la Santa Sede? Qualche precedente c’è, e non rassicura; nel gennaio 2013 Banca d’Italia bloccò i circuiti di carte di debito e di credito e in Vaticano nessuno poteva prelevare un euro dagli sportelli bancari esistenti; un sintomo di credibilità non proprio secondario. Non guasta qualche contromisura per evitare che a poteri esterni alla S. Sede si offrano occasioni per intromissioni indebite.