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I contemplativi: luce e ossigeno per il mondo "esterno"

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L'era dei monaci non è finita: tutt'altro che retaggio di un passato remoto, chiostri ed eremi sottraggono l'uomo di oggi alla frenesia restituendogli un rinnovato rapporto con lo spazio, il tempo, la creazione e il Creatore.

Editoriali 17_08_2023

Se la mentalità comune riconosce un qualche merito al religioso che gestisce l’oratorio o che cura i mali del corpo, fatica però a comprendere quello che si ritira per dedicarsi in toto alla preghiera e al culto.

Prospettiva comprensibile, forse, “a cielo chiuso” (salvo poi scoprire che anche la missionaria della Carità attinge le sue forze ai piedi del tabernacolo, come disse santa Teresa di Calcutta). Meno comprensibile una certa diffidenza verso i contemplativi diffusa nello stesso ambito ecclesiale, nella misura in cui vi si infiltrano quell’attivismo e quel funzionalismo che costituiscono il tono dominante della società attuale. Nella migliore delle ipotesi, monaci ed eremiti vengono collocati a mo’ di ciliegina sulla torta del grande edificio di Santa Romana Chiesa: più in alto e più lontano possibile, ma praticamente considerati poco più che una decorazione. Almeno finché, per caso o per scelta, talora per devozione o anche per disperazione, non ci affacciamo alla soglia del loro chiostri o romitaggi.

Talvolta è sufficiente una breve visita a un eremo tra i boschi, ai confini di quella che siamo soliti definire “civiltà”, per scoprire che quest’ultima andrebbe più compiutamente definita “civiltà della frenesia”. E per accorgersi che la tanto bistrattata vita contemplativa possiede in sé delle riserve di vita soprannaturale e di pace tanto più rigeneranti proprio per chi vive nel mondo. Qui emerge la differenza tra il misantropo che volge le spalle al prossimo e il monaco che volge lo sguardo a Cristo affidandogli anche il prossimo e offrendo a quest’ultimo di dissetarsi alla stessa fonte.

Ciascuno pensi alle sue “oasi di ricarica”; quanto a queste righe, sono ispirate – anche in segno di riconoscenza – da una recente visita e dalla frequentazione ormai ventennale con la comunità eremitica che vive in Garfagnana presso il santuario della Beata Vergine del Perpetuo Soccorso di Minucciano, diocesi e provincia di Lucca. L’attuale comunità è presente dagli anni ’80, quando fra’ Mario Rusconi raccolse il testimone da fra’ Marco Cortesi, epigono di una schiera di “romiti” avvicendatisi sul posto dal XVII secolo. Per raggiungerla bisogna inerpicarsi un po’, tra curve che paiono gallerie coperte dai rami degli alberi: certamente il paesaggio già di suo contribuisce a dare la sensazione di un “altrove”, come un enorme vestibolo naturale che si distende per qualche chilometro intorno al tempio vero e proprio.

Sarà forse illusione o mero benessere psicologico quello di un insegnante, un giornalista, un impiegato che a un certo punto sente il bisogno di salire quassù per “staccare” e si rivolge ai moderni anacoreti per ritagliarsi qualche giorno o qualche ora in cui spegnere i rumori e pacificare il cuore? Sarà forse un effetto placebo indotto dai luoghi suggestivi in cui vivono gli eremiti? Ma se fosse tutta questione di location e, per assurdo, una volta giunti in cima la struttura non fosse che un museo, con degli anonimi gestori al posto dei nostri barbuti amici, basterebbero dieci minuti per visitarla e nessuno verrebbe quassù a cercare pace, o a deporre il proprio fardello di umane preoccupazioni, ma al massimo un po’ di fresco e di relax.

Invece, è proprio la centralità del culto divino a plasmare l’anima di questo luogo e di altri simili. Qui ogni orazione, ogni gesto, ogni voluta d’incenso scava costantemente il varco che unisce visibile e invisibile così che anche quando sono al lavoro nell’orto o nel bosco i monaci sembrano compiere un atto liturgico, fondendo l’ora e il labora e infondendo nelle realtà naturali la grazia soprannaturale di cui poi beneficiano anche i visitatori. È questo il primo dono che gli eremiti offrono a chi sale quassù: respirare il soprannaturale per levare più agevolmente lo sguardo in alto. In fondo, è proprio la costante immersione nel divino a rendere questi asceti così aperti all’umano come ben sa chi viene a sottoporre i propri dubbi e affanni alla loro visione sapienziale.

Il secondo dono è quello di un tempo altro, non più fagocitato dalla fretta e dalle urgenze ma scandito dalle campane e cadenzato dall’intreccio tra i ritmi della natura e quelli delle ore liturgiche. A un certo punto ci si accorge che l’orologio conta sempre meno in questo spazio-tempo dilatato ma tutt’altro che vuoto. E se “là fuori” cinque minuti di ritardo sono sufficienti a generare ansia, qui ci si può sorprendere a “sprecare” tempo osservando la varietà dei fiori e delle foglie, ciascuno progettato dall'inesauribile fantasia del Creatore. Ma soprattutto, tra una passeggiata nel bosco e il canto dei vespri, ci si concede il lusso di riordinare i pensieri, lasciandoli illuminare da una Luce più elevata, per tornare con la mente più ordinata alla vita ordinaria.

L’ultimo dono, ma non ultimo per importanza, è quello del silenzio, al punto che qui c’è anche chi viene a fare quella che i monaci definiscono scherzosamente la “cura del sonno”. Laddove tacciono i rumori esterni riaffiorano i suoni della creazione; e ai tumulti interiori subentra quella calma che spesso appare anch’essa un lusso. Da una breve immersione in questa rinnovata armonia anche i cuori più tormentati possono edificare dentro di sé una piccola oasi cui ristorarsi una volta tornati “a terra”. È una necessità sempre più viva man mano che le nostre società si fanno più convulse e le nostre vite intasate, soffocando non dico l’anelito spirituale ma persino il più umano “conosci te stesso”. Tutt’altro che retaggio di tempi remoti, i contemplativi sono tanto più necessari al giorno d’oggi e a maggior ragione per noi che nel mondo esterno respiriamo anche grazie alle loro riserve di ossigeno.