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MEDIO ORIENTE

Israele alle urne, una chance per Netanyahu

Oggi si vota per la terza volta in meno di un anno nell'unica democrazia mediorientale. Di nuovo ci sarà il duello tra il premier uscente Netanyahu e il suo sfidante Gantz. Ma stavolta Netanyahu potrebbe farcela. Intanto l'amministratore apostolico monsignor Pizzaballa finisce in quarantena per il Coronavirus.

Esteri 02_03_2020
Netanyahu in campagna elettorale

“Non c’è due senza tre, ma non può esserci un quattro dopo il tre” : con questo paradossale aforisma un mio amico che questa mattina si recherà al seggio elettorale per deporre la sua scheda nelle urne della terza consultazione politica nell’arco di un anno per il rinnovo della Knesset, mi sintetizza la sua visione del momento politico, difficile certo, che vive la sua patria, Israele. Escludendo, più che scongiurando una quarta consultazione, data per possibile da certi sondaggi, e ritenendo che questa debba sciogliere il dilemma che le precedenti due non hanno risolto: continuità o cambiamento.

A suo parere, infatti, dopo due tentativi andati a vuoto di cambiare il premier, stavolta si delineerà (ma per gran parte degli analisti politici si “dovrebbe” delineare) l’opzione della continuità, con Netanyahu in testa, vincitore.  Lui, il mio amico,  aveva votato le prime due volte – il 9 aprile e il 17 settembre scorsi – per il cambiamento, cioè per il suo rivale Benny Gantz, leader del nuovo partito di centro Kahol Lavan (Bianco e Blu, i colori della bandiera nazionale). Personalità senza una specifica esperienza politica, ma dall’impeccabile curriculum militare (è stato capo di Stato Maggiore) che poteva assicurare la primaria esigenza della sicurezza. Ed anche far continuare la prosperità economica.

Oggi non ci sarebbe più la principale ragione per portarlo alla guida della nazione. Il cambio di primo ministro, che era apparso provvido dopo oltre dieci anni ininterrotti di Netanyahu (soprattutto per “il necessario cambiamento d’aria nella stanza dei bottoni”), si è rivelato inattuabile per l’impossibilità, provata due volte dal capo dello Stato, di dar vita a una coalizione che assicurasse al premier la maggioranza parlamentare (61seggi): fallito il tentativo di far nascere un governo con i due partiti di centro, nell’alternanza dei leader alla sua guida; tentato, invano, un ritorno del partito russofono di Avigdor Lieberman nella coalizione di partiti religiosi e di destra (persistenti le divergenze che avevano costretto Netanyahu a promuovere un ricorso anticipato alle urne); scartato il sostegno dei partiti della minoranza araba ad una coalizione di sinistra guidata da Benny Gantz. 

I sondaggi più recenti dicono tutti che non si è modificata, se non di un poco irrilevante, la configurazione degli schieramenti politici. 

E allora perché si pensa che Netanyahu stavolta potrebbe farcela? Perché non ci si può ostinare in una competizione a oltranza. E per una serie di altre motivazioni. A cominciare, paradossalmente, dal “si” di Gantz al “piano di pace che Trump gli aveva presentato a Washington, in contemporanea con Netanyahu con il quale l’aveva preparato. Un “si” che gli avrebbe alienato il favore sia della sinistra sia di coloro che lo vedevano come un campione del “cambiamento” pur nella garanzia della sicurezza. Perché -  oggi si chiedono -  puntare su Gantz quando il suo ex consigliere Israel Bakar lo ha definito “un pericolo per il popolo” (“Cercherebbe di fermare un attacco contro l’Iran”)?. E soprattutto quando Netanyahu gode dell’appoggio degli Stati Uniti e, in chiave anti-sciita, dell’Arabia Saudita e altri paesi sunniti del Golfo?

Non va poi dimenticato che oltre ai fedeli seguaci di Netanyahu (gli hanno fatto vincere le “primarie” del suo partito Likud), anche suoi simpatizzanti anti-palestinesi e analisti spassionati ritengono “non determinanti” le incriminazioni per frode, corruzione e abuso di ufficio contestategli; e che lo porteranno il 18 marzo in tribunale. Persuasi che ne uscirà assolto. Al contrario di suoi acerrimi avversari, e autorevoli come lo scrittore Abraham B. Yehoshua, secondo cui invece “Netanyahu tiene in ostaggio un intero paese nello sforzo di essere rieletto per tentare di evitare la condanna della Magistratura”.

Tuttavia è incontestabile che con il governo di Netanyahu il paese abbia goduto di benessere, che l’economia abbia segnato costanti successi e lo sviluppo tecnologico sia stato invidiabile. Nonostante poi le violente dimostrazioni anti-israeliane all’interno della Striscia di Gaza e della West Bank dopo la diffusione del piano di Trump, “la dirigenza palestinese sembra ripiegata su se stessa, incapace di esprimere una qualsiasi determinazione” sul dialogo con Israele (al proposito è interessante la riflessione di un altro analista secondo il quale “il silenzio dell’Europa sta mettendo una pietra tombale sulla soluzione dei due Stati per due popoli”). 

Questo lo scenario odierno, naturalmente condizionato dall’affluenza alle urne che potrà riservare delle sorprese. Qualcuno così ricorda ai “moderati” un adagio di sapienza antica secondo il quale “chi cambia il vecchio con il nuovo peggio trova”. Qualcun altro sentenzia che “Netanyahu deve vincere ai punti per restare in sella. Diversamente la presa sul suo stesso blocco potrebbe vacillare”. L’attesa è grande, nella misura in cui queste elezioni sono avvertite davvero come molto importanti nella vita dell’unica democrazia del Medio Oriente.

Non si pensi tuttavia che il coronavirus abbia cessato di tenere alta l’attenzione. Le ripercussioni sul movimento turistico e dei pellegrini non possono non preoccupare; e la severità delle cautele è dimostrata dalla quarantena cui sono stati sottoposti a Gerusalemme, nel Patriarcato Latino, i due suoi più alti esponenti, entrambi vescovi da poco rientrati dall’Italia: l’ Amminisitratore Apostolico mons. Pierbattista Pizzaballa e il vicario generale mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo.