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L'artista di Dio che cantava nel "Biglietto per l'inferno"

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Cinque anni fa moriva fra' Claudio Canali nell'eremo benedettino in cui viveva dagli anni '90, dove l'inquieto protagonista del rock progressive italiano era divenuto un "gioioso cercatore di bellezza".

Ecclesia 28_08_2023

«Non posso salvarti dal fuoco eterno / hai solo un biglietto per l’inferno»: cantava così nel brano Confessione Claudio Canali, voce del gruppo rock progressivo Biglietto per l’inferno. Ma prese un altro biglietto, verso la pace di un eremo benedettino da dove il 27 agosto 2018 passava all’eternità.

Claudio Canali era nato a Molteno, in provincia di Lecco, il 1° settembre 1952. E lecchese era pure il gruppo musicale (tuttora esistente), fondato nel 1972, che gli addetti ai lavori considerano una pietra miliare del genere. Verrebbe facile a questo punto il cliché del cantante “diabolico” che a un certo punto molla tutto con una clamorosa conversione. Nulla di più falso, perché quello cantato sul palco altro non era che l’inferno di un mondo privo di senso. Si può ravvisare un filo conduttore tra il cantante che fuggiva dal vuoto e l’eremita che aveva trovato la pienezza. Un vuoto che Canali avvertiva sempre più forte dentro di sé e lo portò a intraprendere varie esperienze, compreso un viaggio in India.

Un percorso tutt’altro che facile e lineare che lo condusse ai piedi della Madonna di San Martino a Valmadrera, sempre nel lecchese, ancora vestito da Hare Krisna (tra i quali nel frattempo era entrato sentendo l’impulso a ritirarsi dal mondo ma senza sapere ancora come e dove). Fu una ragazza che gli disse di essere consacrata a Maria a riallacciare i ricordi di infanzia, di quella Madonna che sua madre era solita pregare. «Cosa fai vestito così?», lo apostrofò la custode del santuario vedendo questo giovane sbandato col saio arancione – «Sono venuto a pregare la Madonna… perché non si può vestito così?». La donna cominciò a parlargli di fra’ Mario Rusconi, anch’egli di Valmadrera, che si era ritirato nell’eremo della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano, in provincia di Lucca (di cui ci siamo occupati recentemente). Claudio andò a visitarlo e ci rimase.

Dagli anni Novanta si può dire che la vita di fra’ Claudio non abbia più avuto una scansione cronologica (se non per i voti perpetui pronunciati poi nel 1999) ma liturgica. Fatta pace con il Cielo, si riconciliò anche con se stesso, con il Claudio “inquieto” del passato: «sono ancora io, ma sono in Dio», aveva detto in una (rara) intervista televisiva. E «in Dio» rimase ironico, a tratti persino istrionico quando si lasciava andare ai racconti, contagiando con quella «gioia talmente connaturale alla sua persona che non poteva contenerla», avrebbe poi detto il confratello padre Lorenzo Renelli durante le esequie. Ma una gioia «purificata nel corso della sua vita così come la ricerca della bellezza».

Neanche l’artista cessava di essere tale, passando semmai attraverso una sublimazione. I suoi talenti non diventarono un hobby o un diversivo alieno rispetto alla vita monastica, ma ne vennero totalmente assorbiti ricevendone nuovi e divini impulsi. All’eremo fra’ Claudio scriveva, dipingeva, scolpiva, suonava il flauto e tutto questo entrava nel celeste vortice dell’opus Dei che ne scandiva la vita. Chi frequenta l’eremo troverà ovunque i suoi santi scolpiti nel marmo, i cui tratti ascetici, quasi “barbarici” (in senso “lindoferrettiano”), appaiono  mitigati da quella musicalità che gli era propria persino nel parlare e nel gesticolare, oltre che, naturalmente, nel salmodiare in coro per l’ufficio divino, quando – senza sovrastare ma dando il tono – tra le voci dei monaci riemergeva quella del Biglietto per l’inferno.

«Mentre tu lavori il marmo, Dio lavora te», disse una volta mostrando al sottoscritto – sia concesso un ricordo personale – le sue ultime creazioni. Lo disse con naturalezza, come una realtà che respirava quotidianamente, come se non ci fosse differenza tra lo scalpello e il breviario perché tutti miravano allo stesso fine. Una realtà illuminata da un altro ricordo, quando, a un amico che gli chiedeva come mai avesse definito dei dettagli sul retro di una statua, in un punto che nessuno avrebbe mai visto, il monaco-scultore obiettò: «Ma lo vede Dio».

Si è lasciato “scolpire” fra’ Claudio, non senza difficoltà e sofferenze. Dapprima quelle giovanili della sua inquieta ricerca. Quindi i rigori di una vita ascetica che dona al monaco la beatitudine a prezzo di una quotidiana spoliazione da se stesso. Infine, la malattia e l’agonia della morte, che già alcuni anni prima si era affacciata alla sua porta, ma ancora non era scoccata l’ora. Ne era rimasto quasi deluso: «Quando i medici mi avevano detto che stavo per morire… ma io stavo bene, ero completamente in pace!», raccontava, con la solita naturalezza che a chi non lo conosceva avrebbe fatto persino dubitare che dicesse il vero. L’ora è scoccata poi cinque anni fa: quell’esistenza che aveva sperimentato nel vivo la verità dell’agostiniano «inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te» («il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te», Confessioni 1,1) aveva trovato compimento proprio alla vigilia della memoria di sant’Agostino.

Adesso le sue spoglie mortali riposano poco più su, nel piccolo cimitero di Minucciano, in una tomba fiorita come un minuscolo giardino – che gli sarebbe piaciuta di sicuro – sormontata da una semplice croce di legno. A chi lo ha conosciuto manca quel piccolo eremita “umilmente vulcanico”, e a chi non lo ha conosciuto mancherà di non aver potuto godere in terra della sua amicizia. Ma a nessuno ora è negato quello «scambio spirituale», evocato da padre Lorenzo riguardo agli ultimi giorni di vita, condensato nell’ultimo ed eterno sorriso di quel «gioioso cercatore di bellezza».



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