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CINA

Lavoro forzato nello Xinjiang. Inizia il boicottaggio

La Cina costringe milioni di uiguri nello Xinjiang alla rieducazione ideologica e al lavoro forzato, spesso anche a scopo di lucro. Sono numeri immensi: 1,3 milioni di "rieducati" all'anno, sei milioni e mezzo in cinque anni, secondo le statistiche ufficiali delle stesse autorità cinesi. Di fronte a questa violazione dei diritti umani le aziende occidentali iniziano a tagliare i contatti con la Cina. 

Esteri 22_09_2020
Ingresso di uno dei campi di rieducazione dello Xinjiang

Il mondo del business è solitamente considerato estraneo alle cause umanitarie e sempre e solo attendo al soldo. Ciò è sempre meno vero, considerando la quantità di cause a cui aderiscono le grandi multinazionali e i grandi imprenditori (specie quando si ritirano dall’attività). Ma si tratta quasi sempre di cause filantropiche alla moda: se non si tratta di ecologia, omofobia, femminismo o anti-razzismo, è raro che aderiscano a qualche campagna. L’episodio dello Xinjiang, in queste settimane, dunque, costituisce una felice eccezione: sempre più multinazionali stanno rifiutandosi di cooperare con la Cina per protesta contro la massiccia violazione dei diritti umani nello Xinjiang, ai danni degli uiguri e di altre minoranze etniche turcofone.

Prima di tutto è sempre più difficile ignorare quel che sta avvenendo nella “Regione autonoma” della Cina occidentale, che la popolazione locale tradizionalmente chiamava Turkestan orientale. La deportazione sistematica degli uiguri, sia per motivi religiosi (sono per lo più musulmani) che puramente etnici sta raggiungendo delle dimensioni incredibili. Le stesse autorità cinesi, il 17 settembre, hanno pubblicato un “libro bianco” in cui vantano la rieducazione di 1,3 milioni di cittadini all’anno, per cinque anni, dal 2014 al 2019. Dunque sei milioni e mezzo di abitanti dello Xinjiang, stando alle stesse autorità cinesi, sarebbero passati per i campi di concentramento. Perché questi sono: campi di concentramento, anche se Pechino dichiara che siano “scuole di avviamento professionale”. Secondo le sempre più numerose testimonianze degli internati che ne sono usciti, in questi campi gli abusi sono un fatto quotidiano, vi viene praticata la tortura, la rieducazione consiste in un vero e proprio lavaggio del cervello, dove i prigionieri sono costretti ad abbandonare la fede (costretti a bestemmiare, mangiare carne di maiali nel caso siano musulmani, scrivere atti di autocritica e abiura) e ad imparare a memoria la dottrina del Partito Comunista. Sono anche costretti al lavoro forzato e, secondo un vecchio uso di Pechino già ben noto nei Laogai (così erano noti i campi di concentramento, fino ai primi anni 2000), anche prodotti d’esportazione, su cui lucrano aziende cinesi.

La prima a protestare apertamente è stata l’amministrazione Trump, che ha già inserito nella lista delle sanzioni tutti i funzionari cinesi responsabili delle deportazioni nello Xinjiang. Multinazionali americane di prim’ordine quali la Nike e la Apple hanno interessi nella Regione autonoma e hanno aperto indagini per scoprire se fra i loro fornitori vi siano anche i nuovi schiavisti. L’amministrazione americana ha invitato tutte le aziende a tagliare, per sicurezza, tutti i contatti. Il Congresso Usa, con un accordo bipartisan, è pronto a approvare una legge che vieta le importazioni dallo Xinjiang quando queste sono collegate al lavoro forzato.

Ma il boicottaggio si sta diffondendo anche fra aziende europee. La svedese H&M, colosso dell’abbigliamento, importa cotone dallo Xinjiang. Il 16 dicembre ha annunciato che taglierà i rapporti con un produttore locale, la Huafu Fashion. Un rapporto di un think tank australiano, l’ Australian Strategic Policy Institute, rivelava infatti come la multinazionale svedese fosse una delle beneficiarie del lavoro forzato, e indicava la Huafu come azienda fornitrice sospetta. La H&M, dopo la pubblicazione dello studio ha ammesso di avere “rapporti d’affari indiretti con una fabbrica”, non nello Xinjiang, ma nella provincia dello Zhejiang, di proprietà della Huafu Fashion. “Benché non vi siano prove sull’uso di lavoratori forzati nella fabbrica di Shangyu – si legge nel comunicato di H&M – abbiamo deciso, finché non sia fatta maggiore chiarezza sulle accuse di lavoro forzato, di interrompere il nostro contatto indiretto con la Huafu Fashion, a prescindere dalla sua sede o provincia, per i prossimi 12 mesi”.

Segue a ruota anche la dichiarazione del colosso tedesco Siemens, il cui amministratore delegato, Joe Kaeser, si dice “preoccupato” per la violazione dell’autonomia di Hong Kong e dei diritti umani nello Xinjiang. Per ora è solo un’allerta, perché in pratica i rapporti fra la Siemens e la Cina non sono ancora stati interrotti o cambiati, ma in un’intervista al Die Welt, Kaeser spiega che il suo gruppo “guarda con attenzione e preoccupazione gli sviluppi attuali ad Hong Kong, ma anche nella provincia dello Xinjiang”. E comunque si è schierato per il “rifiuto di ogni forma di oppressione, lavoro forzato, collaborazione in violazioni dei diritti umani… Per principio non potremo tollerare tutto ciò nella nostra compagnia, o accettarlo senza conseguenze per i nostri partner”.

Non resta impunito neppure il film Mulan, della Disney, girato in parte anche nello Xinjiang. Nei titoli di coda si ringraziano anche le locali autorità comuniste, responsabili direttamente della gestione dei campi di concentramento. La trama stessa di Mulan contiene alcune piccole dosi subliminali di propaganda di regime: si dice infatti che la regione attualmente chiamata Xinjiang fosse già parte della Cina nell’alto medioevo. Quando invece si tratta di acquisizioni territoriali molto recenti. Che questa sia propaganda deliberata o semplice ignoranza degli sceneggiatori, il risultato non cambia. Joshua Wong, leader della protesta di Hong Kong, invita al boicottaggio del film. Anche perché la protagonista, l’attrice Liu Yifei, parteggiava esplicitamente per la repressione di polizia a Hong Kong, lodando sui social network proprio quegli agenti che picchiavano e arrestavano i manifestanti, dei quali è rimasto vittima lo stesso Joshua Wong.