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ALLARGAMENTO DEL CONFLITTO

L'Iran colpisce in Iraq e Pakistan. È guerra non dichiarata

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L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra Iran e Usa. L'Iran colpisce nel Kurdistan iracheno, ma anche in Siria e Pakistan.

Esteri 18_01_2024
Erbil dopo il bombardamento iraniano (La Presse)

L’Iran risponde con le armi a lungo raggio ad attacchi e attentati compiuti nelle ultime settimane sul suo territorio e contro esponenti delle milizie alleate di Teheran in Libano, Iraq, Siria e Yemen. 

L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra l’Iran e l’asse Usa-Israele. Il 16 gennaio missili balistici iraniani hanno distrutto nel Kurdistan iracheno un obiettivo definito il “quartier generale del Mossad” a Erbil che sembra essere la casa del ricco uomo d’affari curdo Peshraw Dizayee, rimasto ucciso a quanto sembra con diversi membri della sua famiglia. Dizayee era vicino al governo curdo, possedeva aziende attive nel settore immobiliare e petrolifero ed era considerato da Teheran vicino al Mossad anche se le autorità curde lo hanno seccamente smentito.  Altri missili balistici iraniani hanno colpito anche la casa di un alto funzionario dell’intelligence curda e un centro della stessa organizzazione.

Un comunicato dei Guardiani della Rivoluzione iraniani (Irgc) ha rivendicato l’azione, sostenendo di aver attaccato anche le basi dello Stato Islamico nel nord della Siria e descrivendo l’attacco come «una risposta ai recenti atti malvagi del regime sionista nel martirizzare i comandanti dell’Irgc e della resistenza. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche ha identificato i luoghi di raccolta dei comandanti e i principali elementi legati alle recenti operazioni terroristiche, in particolare l’Isis, nei territori occupati della Siria e li ha distrutti sparando un certo numero di missili balistici” hanno riportato i media iraniani.

Un evidente riferimento all’assassinio in Siria del generale iraniano Razi Mousavi, e in seguito alle uccisioni attuate sempre dagli israeliani in Libano del numero due di Hamas Saleh al-Arouri e del comandante di Hezbollah Wissam al-Tawil ma anche all’incursione statunitense nel quartier generale delle milizie filo-iraniane a Baghdad di inizio gennaio.

Lo Stato Islamico è indicato come autore dell’attentato a Kerman del 3 gennaio scorso, costato la vita a oltre 90 persone durante le celebrazioni per il quarto anniversario dell’uccisione, a Baghdad, del generale Qasem Soleimani: il 4 gennaio un comunicato dello Stato Islamico ha rivendicato su Telegram la paternità dell’attentato attribuito a due suoi attentatori suicidi, ma Teheran ha sempre definito gli attentatori dell’IS come gli esecutori della strage per conto dei mandanti israeliani e statunitensi.

In Siria milizie irachene sciite filo iraniane hanno invece attaccato con razzi la base americana presso il giacimento petrolifero Conoco, già in precedenza colpita. Un comunicato di rivendicazione dichiara che l’attacco è stato condotto «in risposta ai recenti eventi di violenza perpetrati dall’entità sionista nella Striscia di Gaza».

La presenza militare statunitense in Siria non ha alcuna giustificazione giuridica poiché il governo di Damasco non ha mai invitato le truppe americane che considera “invasori” e nessuna risoluzione dell’ONU ha mai autorizzati gli USA a violare il territorio siriano dove meno di 2 mila militari presidiano alcune basi, sostengono le milizie curdo-arabe delle Siryan Democratic Forces contro lo Stato Islamico ma soprattutto impediscono al governo di Bashar Assad di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi delle regioni orientali. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, ha dichiarato che gli attacchi sono stati condotti «con l’obiettivo di difendere l’autonomia, la sovranità e la sicurezza dell’Iran». 

Il governo di Baghdad, che nei giorni scorsi aveva duramente condannato il raid di un drone statunitense sul quartier generale delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite che ha provocato tre morti, ha condannato gli attacchi iraniani denunciando “l’attacco alla sua sovranità” e rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L'Iran rispetta l'integrità territoriale degli altri Paesi, ma il diritto a difendere la sua sicurezza non può essere limitato», ha risposto il ministro della Difesa, di Teheran, il generale Mohammadreza Ashtiani. «Reagiremo verso qualsiasi area che minacci l'Iran», ha dichiarato Ashtiani, precisando che la reazione dell'Iran sarà «proporzionata, decisa e dura».

Paradossalmente la stessa risposta che aveva fornito Washington alle proteste di Baghdad per la violazione della sua sovranità. L’Iraq quindi sembra tornare a costituire il campo di battaglia di un confronto militarmente sempre più aspro tra Usa e Iran anche se il Dipartimento di Stato, pur condannando il bombardamento missilistico di Erbil, ha fatto sapere che nessuna struttura americana è stata presa di mira.

Lo stesso 16 gennaio missili iraniani hanno colpito anche due basi utilizzate dalle milizie jihadiste sunnite di Jaish al-Adl, situate nel Baluchistan pakistano. In passato il gruppo jihadista (definito terrorista dagli Usa e dall’Iran) aveva rivendicato diversi attacchi nel sud-est dell'Iran nel nome dell'indipendenza del Baluchistan. L’attacco alla milizia, che l’Iran ritiene sia sostenuta da Israele, ha provocato dure proteste da Islamabad che ha minacciato “gravi conseguenze”.

Dallo Yemen le milizie Houthi hanno promesso “risposta inevitabili” agli attacchi aerei e missilistici statunitensi e britannici nello Yemen. I miliziani hanno colpito con un missile un mercantile americano in transito senza provocare vittime o gravi danni, definendo tutte le navi commerciali e militari statunitensi e britanniche “obiettivi legittimi e ostili” e aggiungendo che «le operazioni militari per impedire la navigazione israeliana nel Mar Arabo e nel Mar Rosso, continueranno fino a quando non cesserà l’aggressione e non sarà tolto l’assedio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza».

Benché i fronti del conflitto in Medio Oriente si moltiplichino (da Gaza al Libano, dall’Iraq al Mar Rosso, dal Pakistan alla Siria…) l’impressione è che tutti i protagonisti intendano mostrare i muscoli e capacità di deterrenza ma non abbiano interesse a trasformare scaramucce e rappresaglie in guerra aperte.

A raffreddare i rischi di guerra tra Iran e Usa contribuiscono anche anonimi funzionari dell’intelligence Usa citati dal New York Times che hanno assicurato l’assenza di “prove dirette” che dimostrino la compartecipazione di Teheran dietro agli attacchi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso: «Lo scopo dei responsabili iraniani è trovare un modo per colpire Israele e gli Stati Uniti senza scatenare il tipo di guerra che l’Iran vuole evitare». Tuttavia «non esistono prove dirette che colleghino gli alti dirigenti iraniani, né il comandante della forza d’élite dei pasdaran al-Quds né il leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei ai recenti attacchi Houthi alle navi nel Mar Rosso».

La crisi nello Stretto di Bab el-Mandeb sta avendo un forte impatto sull’economia globale e colpisce soprattutto quella israeliana (-85% il traffico di merci nel porto israeliano di Eliat, sul Mar Rosso) e dell’Europa Mediterranea (Italia in testa) riducendo i transiti dal Canale di Suez da dove passa il 12% del commercio marittimo globale. Questa situazione rischia di generare un aumento dell’inflazione, come avvisava già venerdì scorso JP Morgan. Oltre a far lievitare il prezzo del petrolio e del gas naturale si stanno impennando le tariffe di spedizione dei container sulle principali rotte commerciali, ma soprattutto tra l’Asia e l’Europa.