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RU486, il progesterone può annullarne gli effetti. Uno studio conferma

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Uno studio su ratti, pubblicato su Scientific Reports, mostra un’efficacia del progesterone pari all’81% nell’invertire gli effetti abortivi del mifepristone, salvando quindi la gravidanza. Una pratica che si va diffondendo grazie a una rete di medici pro vita.

Attualità 26_08_2023

Ci sono donne che dopo aver assunto il mifepristone, la prima delle due pillole previste dal regime di aborto farmacologico, si pentono. Ma invertire gli effetti della RU486 è possibile, come già descritto sulla Bussola. E un recente studio, a livello pre-clinico, conferma che questa possibilità è piuttosto alta.

Lo studio, condotto su ratti, è stato pubblicato il 6 luglio di quest’anno su Scientific Reports, una rivista con revisione tra pari. Gli autori, Christina Camilleri e Stephen Sammut, hanno riscontrato l’elevata efficacia del progesterone - per oltre l’81% dei casi - nell’invertire il processo abortivo avviato dal mifepristone, quindi mantenendo la gravidanza. Un fatto che si basa su un meccanismo intuitivo.

L’aborto farmacologico, come accennato, si fonda solitamente sull’assunzione di due pillole. La prima, a base di mifepristone, ha l’effetto di bloccare i recettori del progesterone nella donna, in particolare nell’utero, privando l’embrione del nutrimento necessario alla sua sopravvivenza. La seconda, il misoprostolo, serve a causare contrazioni uterine, così da espellere l’embrione. Ma se non si assume la seconda pillola e si interviene in tempo con somministrazioni di progesterone, c’è appunto la possibilità di salvare il bambino.

Tornando allo studio su Scientific Reports, Camilleri e Sammut hanno formato tre differenti gruppi di cavie gravide: 1) un gruppo di controllo, a cui non è stato dato né il mifepristone né il progesterone; 2) un secondo gruppo, a cui è stato dato solo il mifepristone; 3) un terzo gruppo, in cui alle cavie incinte sono stati somministrati sia il mifepristone che il progesterone.

La ricerca è stata condotta, come spiegano gli autori, «in un’età gestazionale equivalente al primo trimestre (il periodo in cui si verificano molti aborti farmacologici) negli esseri umani». I risultati dello studio mostrano che «la somministrazione del progesterone, dopo il mifepristone, inverte gli effetti del mifepristone, con la conseguenza che la prole è vivente alla fine della gestazione nella maggior parte dei ratti (81,3%)». I due ricercatori scrivono di essere consapevoli che i modelli basati sugli animali presentano sia somiglianze che differenze rispetto alla situazione umana, ma la loro utilità a livello scientifico - tenendo a mente queste premesse - rimane. Del resto, come riporta Life News, un professore e ricercatore di lungo corso come il dottor David Prentice (membro del Lozier Institute) sostiene la validità del modello basato sui ratti: «La biochimica relativa al progesterone, al suo recettore e al mifepristone (che compete per il recettore del progesterone) è praticamente identica alla situazione umana. Perciò, questo modello fornisce informazioni su come funziona il sistema negli esseri umani».

Inoltre, se questa indagine rappresenta una novità per l’approfondimento della procedura di inversione in fase pre-clinica, va ricordato che già altri studi e l’esperienza di ormai migliaia di donne in carne e ossa mostrano la buona efficacia del progesterone nel salvare la gravidanza messa in pericolo dal mifepristone. Il sito web di Abortion Pill Rescue Network riferisce che gli studi iniziali sul protocollo salva-bambino seguito da questa rete di medici pro vita hanno mostrato un tasso di successo compreso tra il 64% e il 68%. Il processo di inversione è «molto sicuro», secondo quanto ha dichiarato a Gript il dottor Dermot Kearney, un cardiologo irlandese che pratica questo trattamento nel Regno Unito.

Ma tale trattamento è inviso al fronte abortista, che in questi anni ha tentato più volte di screditarlo attraverso media e organizzazioni faziose e dichiaratamente pro aborto, come l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG), secondo cui esso perpetua lo «stigma» verso le donne che abortiscono e non sarebbe sicuro né «supportato dalla scienza». Peccato che l’ACOG e compagni non ricordino che l’uso del progesterone per invertire il processo abortivo si va diffondendo proprio perché sono le donne che cercano, liberamente, un’alternativa all’aborto. E la stessa organizzazione, invece, non ha remore a definire «sicuro» l’aborto farmacologico, senza ricordare che nei soli Stati Uniti esso ha già causato, oltre alla morte di milioni di nascituri, anche quella di 28 donne (dal 28 settembre 2000 al 30 giugno 2022), nonché una gran mole di altri effetti collaterali gravi. Effetti avversi che hanno spinto, giusto pochi giorni fa, mercoledì 16 agosto, la Corte d’Appello per il Quinto Circuito degli Stati Uniti a biasimare la leggerezza con cui la Food and Drug Administration (FDA) ha progressivamente liberalizzato il mifepristone, con i giudici che hanno chiesto di reintrodurre molte delle restrizioni precedentemente in vigore.

Sul fronte pro vita, invece, l’Abortion Pill Rescue Network, rete nata negli Stati Uniti e che si va gradualmente diffondendo in altri Paesi, ha predisposto uno schema di domande e risposte, in cui dà le informazioni di base necessarie per chi voglia cercare di invertire la procedura abortiva del mifepristone, indicando di intervenire entro 72 ore (meglio ancora entro il primo giorno), facendosi guidare da un medico.



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