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LETTERA

Aborto, la sentenza che ha salvato gli ospedali cattolici

Il recente pronunciamento del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa che - contro la CGIL che denunciava limiti all'aborto causati dall'alto numero di obiettori di coscienza - ha dato ragione all'Italia, ha conseguenze positive importanti che non si deve sottovalutare.

Vita e bioetica 13_07_2016
Consiglio di Europa

Il recente pronunciamento del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa riguardo al ricorso della CGIL che denunciava presunte restrizioni alla possibilità di abortire causa medici obiettori di coscienza, ha dato adito a diverse interpretazioni. Al proposito ci scrive l'on. Eugenia Roccella per spiegare alcuni aspetti tecnici, la cui conoscenza è necessaria per poter dare una valutazione oggettiva della sentenza.

Caro direttore,

I pronunciamenti dei comitati e dei tribunali europei sulle questioni etiche sono spesso mal compresi in Italia, e quindi facilmente piegati a interpretazioni ideologiche e persino false. Quando proprio non è possibile farlo, i media scelgono di tacere e sorvolare. E’ puntualmente accaduto anche per la recente risoluzione sull’obiezione di coscienza. Mentre sulle critiche mosse da un semplice comitato tecnico (l’ECSR, il comitato dei diritti sociali al Consiglio d’Europa) all’eccessivo numero di obiettori sulla 194, i giornali hanno suonato trombe e tamburi, sulla risoluzione del Comitato dei ministri (organo politico, con poteri decisionali) è calato un imbarazzato silenzio.

L’imbarazzo era scontato, visto che il peso del documento tecnico era stato amplificato a dismisura, sostenendo che fosse una condanna definitiva a cui l’Italia doveva uniformarsi. Così non è: sono i ministri che valutano e decidono, il comitato si limita a verificare il rispetto della Carta sociale dei diritti, da parte dei paesi della Ue che l’hanno sottoscritta, e a presentare le eventuali violazioni riscontrate all’organismo politico. Tra l’altro non tutti i paesi membri hanno firmato la Carta, e in teoria l’Italia potrebbe scegliere, in caso di contenzioso, di ritirare la firma piuttosto che applicare una risoluzione su cui non è d’accordo.  

Come è noto i tecnici hanno ritenuto, su reclamo della Ippf e poi anche della Cgil, che la percentuale totale di ginecologi obiettori rendesse difficile, o impedisse, l’applicazione della legge sull’aborto e danneggiasse, sul piano della carriera e del carico di lavoro, i medici non obiettori. Ma l’esame dei dati contenuti nelle ultime relazioni al Parlamento sulla 194, illustrati dai rappresentanti del Ministero della Salute, hanno dimostrato come il carico di lavoro per i non obiettori sia minimo (in media circa due interventi a settimana) e come gli eventuali problemi siano dovuti all’organizzazione sanitaria delle regioni e non al numero di obiettori.

Quando ero sottosegretario alla Salute avevo già svolto una relazione al Consiglio d’Europa sulla questione, spiegando i dati, e, lavorando in sintonia con Luca Volonté siamo riusciti a evitare l’approvazione di una risoluzione (politica in quel caso) contro il nostro paese. Ho chiesto quindi di correggere il modo in cui venivano presentati i dati sull’aborto, identico da decenni, integrando le informazioni  fornite con altri dati. La relazione al parlamento, nonostante le diverse personalità che si sono succedute alla Salute (da Veronesi alla Bindi), era sempre stato appannaggio esclusivo dei tecnici, senza che il ministro di turno rivolgesse al documento uno sguardo attento. E’ evidente che le percentuali assolute, non bilanciate da altri elementi, come il carico di lavoro o il confronto con il numero di punti nascita, vogliono dire poco e si prestano a strumentalizzazioni.

Ma perché tanta insistenza, e tanta attenzione al fenomeno dell’obiezione di coscienza in Italia (l’unico paese perennemente sotto osservazione sul tema)? Gli obiettivi sono due: introdurre le cliniche private, e mettere in seria difficoltà le strutture sanitarie cattoliche. L’Ippf da anni cerca di infilarsi nel nostro paese, l’unico in cui non ci siano privati che guadagnano sulle Interruzioni volontarie di gravidanza (IVG). Spesso non si ricorda che da noi l’aborto si può praticare solo in strutture pubbliche o convenzionate, e che questo costituisce una garanzia importante: quando ci sono privati che ci guadagnano è impossibile fare politiche di prevenzione, anzi, l’Ivg viene incoraggiata, ingentilita concettualmente, resa un intervento come altri. Per esempio, accade che nelle stesse strutture in cui si pratica l’aborto si realizzino interventi estetici, e certo non si fanno colloqui e non si prospettano alternative. Sappiamo bene che sulla prevenzione si è fatto assai poco in Italia, ma anche quel poco sarebbe irrealizzabile altrove, e non è un caso se gli aborti in Svezia, in Inghilterra, in Francia, sono molto più numerosi che da noi. 

Ma il punto più sensibile è quello che riguarda gli ospedali cattolici. L’idea di chi ha caldeggiato l’intervento del Consiglio d’Europa è di arrivare a stabilire una soglia minima di non obiettori da assumere in tutte le strutture, anche quelle cattoliche, visto che l’obiezione è sempre individuale e non può riguardare la struttura. Succederebbe in Italia quello che la Bussola ha denunciato per l’eutanasia in Belgio: anche negli ospedali cattolici si potrebbero fare gli aborti, visto che ci sarebbe il personale disponibile a farli. Dalla possibilità all’obbligo il passo è automatico, soprattutto in presenza di richieste; e a fare pressione ci penserebbero subito i movimenti pro aborto.

Capisco bene che questa battaglia non scalda i cuori, e appare a qualcuno come una semplice trincea difensiva: ma non lo è. Capisco che sarebbe più gratificante poter dire, sì, l’obiezione è massiccia perché nessuno vuole fare aborti, e i medici vogliono far nascere i bambini, non farli morire, e questo è in parte vero, anche se l’ingresso dei privati cancellerebbe il problema. Ma alle obiezioni tecniche bisogna necessariamente rispondere con argomenti tecnici e dati obiettivi, alle bugie bisogna ribattere con le verità, smontando le argomentazioni false. Senza quei dati incontrovertibili e spiazzanti sul carico di lavoro, il comitato dei ministri avrebbe condannato l’Italia, e gli effetti sarebbero stati quelli appena illustrati.