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LA MORTE DELL'ARTISTA

Fo, narratore rivoluzionario, ma troppo ideologico

La morte dell'artista vista da un uomo di teatro: grande inventore e grande attore del teatro di narrazione. Ma uomo fortemente ideologico che faceva battaglie politiche appoggiando la logica di sistema che esaltava la solitudine dell'io. Resterà la sua maestria nell'intrappolare lo spettatore nel gioco scenico, che però non si è espresso appieno perché trascinato da un carro all'altro del potere culturale dominante. 

Cultura 14_10_2016
Dario Fo, morto ieri a Milano

Certamente oggi siamo più poveri di quanto lo eravamo ieri. Davanti ad una vita che sparisce è come se ci venisse rubato qualcosa. Nel caso di Dario Fo questo è più evidente poiché si tratta di un uomo pubblico.

Ma cosa è stato Dario Fo per la cultura e per il teatro italiano e mondiale? Innanzi tutto un grande inventore, un grande attore, un grande drammaturgo. É sua, se non proprio l’invenzione, la diffusione, dagli anni settanta in poi, del teatro di narrazione, che ci ha dato l’immagine di Dario Fo quale giullare dell’epoca contemporanea e menestrello di una nuova poetica teatrale.

Ricordiamo la sua eloquenza ed inventiva, il granmelò, il ritorno ad un tipo di teatro politico di stile brechtiano. Dario Fo, osannato dalla cultura radical chic per le sue posizioni politiche, che l’hanno fatto per anni e fino ad oggi, soprattutto dopo il nobel per la letteratura, una bandiera di una certa cultura di sinistra, in realtà è stato per certi versi un conservatore. Uomo fortemente ideologico, solo negli ultimi anni si è reso conto che forse questo tipo di cultura non era sufficientemente sincera ed umana in quel che proponeva.

Negli anni settanta, il suo schierarsi prima per il divorzio e poi per l’aborto, mostrano un’omologazione a quello stesso sistema che credeva in fondo di combattere attraverso la sua arte, senza essersi reso conto, ad esempio, che con quella battaglia sull’aborto, che fece in nome della libertà della donna, in realtà appoggiava la logica di un sistema che esaltava la solitudine dell’io (femminile in questo caso), cioè la logica capitalistica e borghese di un io svincolato da tutto, cioè lasciato solo. Una solitudine che addirittura non tiene conto che la posta in gioco è la vita altrui, quella dell’essere umano a cui è negata la nascita. Un essere non riconosciuto, da questa mentalità radicale, come uomo perché non ancora produttivo, non ancora sociale, in fondo non ancora politico.

Ma di Dario Fo, noi uomini di teatro vogliamo ricordare soprattutto ciò che ha rappresentato per la nostra professione. Ricordiamo in particolare la sua rivoluzione teatrale, quella che negli anni sessanta/settanta lo ha accompagnato ai grandi nomi dei rinnovatori. A coloro che, come Jerzy Grotowski, sono stati in grado di ricomporre l’aporia tra contenuto (testo) e attore (incarnazione).

Lo ricordiamo per la sua presenza scenica che era la messa in scena della propria maschera, quella maschera costruita con l’ausilio della forma e della cultura delle compagnie itineranti del teatro medievale e della tecnica del mimo di Etienne Decroux.

Di lui vogliamo ricordare la capacità di far interagire con grande maestria l’arte dell’attore che danza in scena con la macchina teatrale. La consapevolezza che ogni elemento ed atto scenico compongono l’immenso e articolato linguaggio dei segni che fanno l’arte comunicativa del teatro. Particolarmente mirabile fu la sua messa in scena del “Histoire du soldat” di Igor Stravinskij, in cui la sua arte drammaturgica, pittorica, poetica si condensarono in una sinergia che diede vita ad un allestimento di grande suggestione ed atmosfera teatrale.

Vogliamo ricordare anche la produzione drammaturgica benché, pur tentando di essere rivoluzionaria, nel mostrare il conflitto perenne tra poveri e potenti, prendendo la parte dei primi, oltre a peccare di un certo manicheismo, non sa guardare più in là della logica economica. É questo il caso di alcune parti del “Mistero buffo” o di “Francesco, un santo jullare”, in cui la santità è ridotta a puro materialismo e Gesù Cristo e San Francesco sono ridotti ad eroi popolari accumunabili a Robin Hodd.

Infine come non ricordare il suo “Manuale minimo dell’Attore nel quale, più che vere tecniche formative dell’attore, in modo analogico viene presentato il suo modo d’essere, il suo modo d’intrappolare e coinvolgere nel gioco scenico lo spettatore: il suo mostrarsi quale mattatore teatrale.

Che dire e che fare ancora se non inchinarsi in ogni caso davanti ad un maestro, un uomo pieno di luci e di ombre come ogni altro uomo, che, rischiando, si è mosso nella cultura del novecento cercando di dire qualcosa di proprio, non potendo però esprimersi a pieno e con piena lucidità perché trascinato negli eventi, al pari della cultura radicale borghese, da un carro all’altro del potere culturale dominante.

*Teatro dell'Aleph