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IRAQ E SIRIA

Isis: quanta fatica per riconoscere un palese genocidio

I crimini commessi dall'Isis contro le minoranze cristiane, yezide e musulmane sciite sono chiaramente atti di genocidio. Ma sono occorsi più di due anni prima che i parlamenti in Usa e Gran Bretagna li definissero per quel che sono. Un mix di rigidità burocratica e di miopia politica hanno finora tappato la bocca alle democrazie.

Esteri 23_04_2016
Iraq, fuga dal genocidio

Quando un crimine di massa si può considerare un genocidio? La Convenzione sul Genocidio, approvata dall’Onu nel 1948, parla chiaro: “si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti ad impedire nascite all'interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

L’Isis sta commettendo sistematicamente tutti questi atti, dal 2014, nei confronti di cristiani, yezidi e musulmani sciiti, nei territori che controlla in Siria e Iraq. La sua intenzione è chiaramente quella di distruggere ed espellere dalla regione che controlla questi gruppi religiosi. Ne è prova ulteriore la distruzione sistematica dei luoghi di culto, dei monumenti, delle vestigia antiche delle religioni perseguitate: non solo devono essere espulse, ma la loro eredità culturale viene cancellata. Questa settimana il Parlamento britannico ha riconosciuto il crimine di genocidio commesso dall'Isis, ma solo vincendo le resistenze del governo Cameron. Gli Usa avevano fatto altrettanto il 17 marzo, ma, anche qui, solo dopo che l’amministrazione Obama è stata politicamente costretta a farlo, messa nell’angolo da un voto unanime della Camera.

La Camera dei Comuni del Parlamento britannico ha votato mercoledì la risoluzione che condanna l’Isis per genocidio. In un’occasione più unica che rara, tutti i parlamentari presenti alla sessione, di qualunque appartenenza politica fossero, hanno espresso un voto unanime. La risoluzione è passata per 278 a 0. La risoluzione recita: “Questa Camera crede che cristiani, yezidi e altre minoranze etniche e religiose in Iraq e Siria, soffrono un genocidio commesso dal Daesh (Isis, ndr)”. Il Parlamento chiede al governo di coinvolgere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di portare il caso di genocidio di fronte alla Corte Penale Internazionale. “Oggi è un giorno di speranza per ogni cristiano, yezida e per i membri di altre minoranze religiose che soffrono sotto il regno del terrore dell’Isis” commenta Robert Clarke, direttore per l'Europa di Alliance Defending Freedom. La stessa organizzazione aveva commissionato un sondaggio, nei giorni scorsi, per tastare il polso all’opinione pubblica britannica. Il 63% dei britannici sostiene la risoluzione sul genocidio (solo il 7% si oppone), il 69% ritiene che sia giusto sottoporre il caso al Consiglio di Sicurezza in vista di un processo presso la Corte Penale Internazionale. Il 59% ritiene che il governo britannico debba aprire un’indagine formale per raccogliere le prove del genocidio. 

Soddisfazione anche da parte della Chiesa cattolica britannica, espressa dal cardinale Nichols: “Saluto con gioia il voto in Parlamento che riconosce la tragedia sofferta dai popoli della Siria e del Medio Oriente. La loro situazione drammatica richiede la nostra attenzione e azione. Prima di tutto, la violenza deve fermarsi e ciò richiede assistenza internazionale. Secondo: le aree affette esigono sicurezza, con la rimozione delle Ied (mine artigianali, ndr) e degli altri ordigni. Case e infrastrutture necessitano di una ricostruzione. Infine c’è bisogno di intraprendere da subito un lungo lavoro di ricucitura della fiducia reciproca fra le comunità locali.

Ma come mai sono occorsi quasi due anni per riconoscere ciò che era sotto gli occhi di tutti? Il voto unanime dei parlamentari britannici è un caso praticamente senza precedenti, perché il crimine su cui si è votato è ancora in corso e la guerra entro cui viene commesso non è affatto finita. Tant’è vero che i parlamentari hanno agito contro il consiglio del governo, che frenava. L'esecutivo Cameron avrebbe preferito non emettere un parere che spetta a un tribunale. Tobias Ellwood, a nome del Ministero degli Esteri, ha spiegato all’aula parlamentare (in mezzo a fischi e contestazioni), che lo scopo del governo è solo quello di raccogliere prove, in vista di un processo internazionale, ma ritiene che sia un errore determinare ora la natura dei crimini commessi dall’Isis. In questo modo, il governo Cameron se ne è già, ufficialmente, lavato le mani. Il deputato laburista Stephen Pound, nel corso del dibattito, ha dichiarato che il mancato riconoscimento del genocidio sarebbe una “doppia discriminazione” e una “seconda morte”, per coloro che lo stanno patendo. Il suo collega conservatore Edward Leigh, ha affermato che: “Il comportamento del governo si è finora basato sui precedenti legali. Ma non credo che in questo caso basarsi sui precedenti sia sufficiente, visti gli orrori che si stanno perpetrando”. 

Un precedente vicino, a dire il vero, c’è, ma all’estero. Negli Stati Uniti, anche qui dopo una lunghissima riluttanza, i crimini dell’Isis sono stati riconosciuti come atti genocidi da parte dell’amministrazione Obama. Il 17 marzo scorso, il segretario di Stato John Kerry ha dichiarato: “A mio giudizio, il Daesh è responsabile di genocidio contro minoranze nell’area che controlla, inclusi yezidi, cristiani e musulmani sciiti”. Le dichiarazioni di Kerry erano state accolte con un sospiro di sollievo da organizzazioni per la difesa dei diritti dei cristiani, come Open Doors, la cui direttrice Lisa Pearce, aveva commentato a caldo: “E’ evidente che i cristiani siano stati spazzati via dalla regione e vi sono chiari segni di ‘pulizia religiosa’. E’ anche facile capire perché tante altre personalità, fra cui il Papa e il Parlamento Europeo abbiano condannato queste azioni definendole come genocidio”.

Ma anche in questo caso è legittimo chiedersi: come mai tanta riluttanza prima di parlare di genocidio? Non per motivi legali, come in Gran Bretagna, ma politici nel caso degli Usa. Il Dipartimento di Stato si era distinto per una serie di scelte, non proprio edificanti, ai danni dei cristiani perseguitati in Siria e Iraq. Un anno fa, all’inizio del maggio 2015, ad esempio, aveva negato il visto di ingresso a suor Diana, una voce influente della minoranza cristiana irachena, invitata negli Usa a parlare della persecuzione. Il Dipartimento aveva addotto scuse tecniche e burocratiche, però aveva permesso ad altri iracheni musulmani di entrare senza problemi in occasione di eventi e conferenze. Sempre nel 2015, a genocidio già in corso da mesi, 27 cristiani iracheni che erano entrati negli Usa senza avere i “documenti in regola”, erano stati arrestati, detenuti per alcuni mesi nel carcere di Otay Mesa (California) e poi espulsi, dietro l’accusa di immigrazione clandestina. Non era stato riconosciuto loro lo status di rifugiati, perché non fuggivano dalla persecuzione di un governo, ma da quella di un’entità non statuale e non riconosciuta. Quindi gli Usa, di norma, accolgono chi fugge dal regime di Assad (anche se dovesse essere un estremista islamico), ma non chi fugge dall’Isis (anche se è una potenziale vittima di un genocidio): un mix letale di rigidità burocratica e miopia politica. Solo da questo mese, con la condanna esplicita del genocidio dell’Isis, questi termini potrebbero cambiare.

Ma in pratica, cosa comporta questa condanna da parte di Usa e Gran Bretagna? Né la Siria, né l’Iraq sono Stati firmatari dello Statuto di Roma che istituisce la Corte Penale Internazionale, dunque non ne accettano la giurisdizione sui propri territori. L’Onu permette un intervento di ingerenza umanitaria per fermare una “grande violazione” di diritti umani, tanto più se è in corso un genocidio, ma non prevede alcun obbligo in merito. Il riconoscimento di un genocidio a eventi in corso è sicuramente una presa di coscienza storica, con pochissimi precedenti, ma rischia di rimanere solo sulla carta.