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REPORTAGE PAKISTAN/3

La fede incrollabile dei perseguitati dalla Legge Nera

Essere cristiani in Pakistan, significa avere meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza. È il caso di Harron, 14 anni, aggredito e pugnalato. Non può accusare i suoi aggressori, perché i loro parenti minacciano la peggior rappresaglia: l'accusa di blasfemia. Amjad Dildar e Sawan Masih sono tuttora sotto accusa, i loro quartieri sono stati devastati, dopo denunce pretestuose e senza prove. Storie di ordinaria persecuzione in Pakistan, dove la "Legge Nera" sulla blasfemia è usata come arma per schiacciare la minoranza cristiana. La fede dei cristiani pakistani, tuttavia, resta incrollabile. Come dimostra anche il caso di Akash Bashir, immolatosi per salvare una chiesa da un attentatore suicida. Potrebbe diventare il primo santo del Pakistan.

Libertà religiosa 06_03_2019
Casa di cristiani a Joseph Colony

Essere cristiani in Pakistan, significa avere meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza. A livello sociale, come giudiziario.

Lo ha già imparato il giovane cristiano Harron, appena 14 anni, accoltellato a Karachi il 18 febbraio scorso da cinque musulmani. Il ragazzo ha subito lesioni gravissime a un rene che gli è stato asportato. E mentre lui era agonizzante la famiglia ha ricevuto fortissime pressioni e minacce per ritirare le accuse contro i suoi aggressori. Come sempre, nei casi in cui sono coinvolti dei cristiani, per spingere le vittime e le loro famiglie a ritirare la denuncia, gli assalitori e i loro familiari si servono della legge antiblasfemia. “Li minacciano di spargere brandelli del Corano oppure di sostenere che qualcuno dei parenti della vittima ha offeso il Profeta Maometto”, ci ha spiegato l’avvocatessa cattolica Tabassum Yousaf, incontrata a Karachi assieme a una delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre. La Yousaf ha preso in carico il caso di Harron come quelli di tante altre vittime e famiglie cristiane che, senza di lei, sarebbero abbandonate di fronte a un sistema caratterizzato da una forte pressione esercitata dalla controparte musulmana su poliziotti e giudici. Molti dei suoi clienti, sono genitori di ragazze cristiane rapite e convertite forzatamente all’Islam. Famiglie che, oltre al muro di gomma degli agenti di polizia e dei giudici che mai contesterebbero una conversione all’islam, anche nel caso in cui la convertita sia minorenne e tenuta in ostaggio, vengono minacciati di essere accusati di blasfemia.

La cosiddetta legge antiblasfemia, corrispondente ai commi B e C dell’articolo 295 del codice penale, è molto utile come arma di vendetta, specie se la si utilizza contro un cristiano o altro appartenente alle minoranze religiose. È accaduto pochi giorni fa, sempre a Karachi, nel quartiere Farooq-e-Azam. Lo scorso gennaio il cristiano Amjad Dildar ha chiesto alla coppia musulmana composta da Fayaz e Samina Riaz, di liberare l’appartamento che gli aveva dato in locazione. In risposta il 19 febbraio Samina ha accusato tre delle figlie di Amjad e un’altra donna di aver profanato una copia del Corano immergendola in un bidone di acqua sporca. Imputazioni poco plausibili visto il precedente dello sfratto, ma ciò non è importato a una folla di musulmani infuriati che si sono riversati sul quartiere di Farooq-e-Azam, uccidendo animali e bestiame, prendendo a sassate chiese e abitazioni e costringendo almeno 200 famiglie cristiane alla fuga.

Vedremo cosa accadrà alle donne accusate che, secondo quanto ci riferiscono fonti locali, ora sarebbero sotto custodia in una località segreta. Ci sono però dei precedenti che non lasciano ben sperare. Uno in particolare è quello di Sawan Masih, il cristiano accusato di aver offeso Maometto nel 2013 e condannato a morte nel 2014. Nel quartiere di Joseph Colony a Lahore, Sawan stava bevendo con un suo amico musulmano, Shahid Imran. “Veniva spesso a casa nostra e a volte si fermava anche a dormire”, ci spiega la moglie di Sawan, Sobia, che ormai da sei anni cresce da sola i loro tre figli. Tra i due uomini nasce una lite e il 7 marzo 2013 Shahid sporge denuncia contro il giovane cristiano. Esattamente come nel caso di Asia Bibi, anche qui le irregolarità non mancano, come attesta l’avvocato di Sawan, Tahir Bashir. “Al momento del fatto non vi erano testimoni eppure, due giorni dopo, due uomini si sono presentati alla stazione di polizia sostenendo di aver ascoltato la presunta frase blasfema”. Così, il 9 marzo, ben aizzati dagli imam durante la preghiera del venerdì, tremila musulmani attaccano il quartiere di Joseph Colony dando fuoco a 200 case e due chiese.

In molti credono che l’accusa di blasfemia fosse strumentale, perché la locale comunità islamica voleva cacciar via i cristiani per impossessarsi del quartiere, piuttosto ambito in quanto vicino a un’area di imprese siderurgiche. Fortunatamente, grazie all’intervento del governo, le oltre 200 case distrutte sono state ricostruite e i cristiani sono potuti tornare a casa. Ma se gli 83 responsabili dell’attacco al quartiere sono tutti a piede libero, Sawan è stato condannato a morte nel 2014. Nella sentenza il giudice ha citato come riferimento dei versetti del Corano. Da allora l’uomo, oggi 32enne, attende il processo d’appello che viene costantemente rimandato. Soltanto quest’anno è stato rinviato due volte: il 28 gennaio e il 27 febbraio. La nuova udienza è stata fissata per il 20 marzo, ma con molta probabilità anche stavolta il giudice incaricato sarà “impegnato su altri casi”.

Intanto Sawan resta in carcere come altri 24 cristiani attualmente detenuti per blasfemia. Sono 220 i cristiani accusati di questo crimine dal 1987 a oggi, dopo che sono stati introdotti i commi B e C, il 15% delle 1534 accuse di blasfemia formulate in totale in questi anni. Una percentuale ben superiore a quel misero 2% che la comunità cristiana rappresenta all’interno della popolazione pachistana.

Anche questo significa essere cristiani in Pakistan. Eppure i nostri correligionari hanno una fede incrollabile. Per rendersene conto basta guardare alle croci dipinte con orgoglio sulle porte, pur nella consapevolezza che l’essere identificati può significare aggressioni e violenze. Oppure basta incontrare le famiglie di quanti hanno perso la vita in attentati anticristiani. Come il giovane Akash Bashir, ucciso a 19 anni mentre si occupava come volontario della sicurezza della Chiesa Cattolica di St. John a Lahore, colpita da un attentato il 15 marzo 2015. “Siamo grati a Dio per averci dato un figlio martire”, ci dice il padre Bashir accennando un sorriso. La madre, Nazbano riferisce di come più volte abbia chiesto al figlio di non prestare più servizio. “Dopo l’attacco a una chiesa a Peshawar nel 2013 avevo paura, ma Akash mi disse che sarebbe stato contento di dare la sua vita per salvarne delle altre”. Così è stato: il giovane ha placcato il kamikaze costringendolo a farsi esplodere fuori dalla chiesa. Se non lo avesse fatto, sarebbero morte centinaia di persone che si trovavano all’interno della Chiesa per la messa domenicale. Invece le vittime sono state soltanto 15, incluso Akash che presto potrebbe diventare il primo santo del Pakistan.