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PADOVA

La madrassa degli orrori, banalità della violenza

Le madrasse sono le scuole in cui i giovani musulmani apprendono i fondamenti dell'islam. A Padova, quella gestita da due giovani imam, è balzata all'onore delle cronache per i maltrattamenti a cui erano sottoposti i piccoli allievi. Ma sbalordisce che i genitori non abbiano denunciato: il maltrattamento è per loro nell'ordine delle cose.

Educazione 24_11_2019
Madrassa

Le madrasse sono le scuole in cui i giovani musulmani apprendono i fondamenti della religione islamica. Spesso l’insegnamento consiste soltanto nell’imparare a memoria il Corano, ovviamente nell’arabo classico. Anche se milioni di fedeli non lo capiscono, i musulmani ritengono che la recitazione in sé abbia valore perché il Corano è parola di Dio increata. Anche in Italia le comunità islamiche, se ne hanno i mezzi e possono disporre di un imam, aprono delle madrasse per i loro bambini, di solito frequentate da maschi e femmine.

Quella di Padova, del quartiere Arcella, è finita sotto inchiesta l’estate scorsa e i due imam che si sono succeduti nella gestione del centro islamico di cui fa parte, entrambi originari del Bangladesh, sono stati arrestati dopo che, in seguito a una serie di segnalazioni da parte di insegnanti e a una indagine della polizia, è stato accertato, anche grazie all’installazione lo scorso settembre di telecamere nascoste, che terrorizzavano i bambini, li prendevano a bacchettate, schiaffi e pugni e li punivano con vere e proprie torture come quella di restare per diversi minuti in equilibrio su una gamba sola o nella “posizione del pollo”: gambe piegate, testa chinata in avanti, braccia dietro le ginocchia.

Il primo imam si chiama Ahmed Junayed, ha 20 anni. Per le violenze inflitte ai bambini era stato sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora in città. In seguito è stato appurato che l’uomo ha posizioni antisemite. Ritenuto socialmente pericoloso, è stato rimpatriato il 20 novembre. Il secondo imam, chiamato a sostituire Ahmed, si chiama Shahadat Hossein, ha 23 anni. Le telecamere e dei video fatti con il cellulare lo mostrano mentre umilia gli allievi, minaccia uno di strappargli una guancia se non studia a voce alta, un altro di strappargli un orecchio. Dalle parole ai fatti, prende a ceffoni e a pugni, tira le orecchie, strattona. La procura accerta che i giovani musulmani sono “fatti piangere per il dolore e la paura così da costringerli a un regime di vita doloroso e avvilente”. Nell’ordinanza del gip di Padova delle lezioni si dice che “invece di portare a una crescita spirituale dei bambini, impongono loro percosse e vessazioni”.  

Il fatto si potrebbe classificare come un caso deplorevole simile a quello degli asili dove si scopre che i piccoli vengono maltrattati, una brutta esperienza che bisogna aiutare i bambini a dimenticare. Ma non è così perché ad accorgersi delle maestre manesche degli asili sono i genitori dei bambini che notano nei figli comportamenti preoccupanti e si attivano. Invece le violenze degli imam le hanno denunciate gli insegnanti delle scuole frequentate dai piccoli musulmani, non i genitori. Loro hanno capito che qualcosa non andava vedendoli tristi, svogliati e hanno deciso di difenderli, scoprendo che i genitori sapevano e non ne erano turbati. Il magistrato racconta di un padre secondo cui “finché non vede i segni va tutto bene”, di un altro che parla della questione “con un sorrisetto”. Le famiglie hanno continuato a far frequentare il centro islamico ai figli e non intendono denunciare l’imam che ritengono “un brav’uomo” che qualche volta perde la pazienza. 

Quando è stato arrestato, il “brav’uomo” pare che abbia reagito incredulo: “se non studiavano, io li punivo. Nel mio paese si fa così, non sapevo che qui fosse un reato”. Il comportamento delle famiglie dei suoi allievi gli dà ragione. Questo vuol dire che quei bambini domani potrebbero finire di nuovo nelle mani di un imam “severo” e, soprattutto, è possibile che vengano trattati allo stesso modo dai parenti che per l’onore, per il decoro famigliare si ritiene abbiano il diritto e il dovere di vegliare sul comportamento in particolare di donne e bambini, di punirli a discrezione se lo ritengono giusto, violando diritti che tali non sono ai loro occhi. Non è dato sapere quante violenze si consumino nelle case di famiglie originarie di paesi in cui per tradizione non si ammettono diritti universali, la libertà non è un valore, manca il concetto stesso di persona. Conosciamo solo i casi estremi, ad esempio di donne segregate, picchiate per comportamenti considerati disonoranti, di ragazze uccise per aver rifiutato un matrimonio combinato: casi che un tempo facevano clamore e ormai quasi passano inosservati.        

“Che diritto abbiamo noi di giudicare istituzioni diverse dalla nostra?”. Da decenni questa richiesta di non giudicare, anzi apprezzare le tradizioni altrui, far loro spazio, accompagnata dalla infondata motivazione che l’Occidente ha sacrificato i valori umani al profitto mentre il resto dell’umanità vi è rimasto fedele ed è quindi modello di tolleranza, giustizia e pace, risuona nelle aule universitarie, ripresa da cooperanti, laici e religiosi, politici, giornalisti.

Proprio a Padova, nel 2015 il vescovo, monsignor Claudio Cipolla, si era detto disposto a fare “tanti passi indietro (si parlava dei presepi nelle scuole a Natale) pur di mantenerci nella pace e pur di mantenerci nell’amicizia. Non dobbiamo presentarci pretendendo qualsiasi cosa che magari anche la nostra tradizione e la nostra cultura vedrebbe come ovvio. Se fosse necessario per mantenere la tranquillità e le relazioni fraterne tra di noi io non avrei paura a fare marcia indietro su tante nostre tradizioni”.

Tanti concordano con monsignor Cipolla. Ma se per la pace e la tranquillità si abbandonano le nostre tradizioni di rispetto e tutela della persona umana, dei più deboli e indifesi prima di tutto, il risultato può essere una madrassa dove si torturano i bambini.