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Più che l'amor poté il profitto: il bluff delle coop migranti

Il piagnisteo delle coop sociali sui mancati utili dovuti ai tagli del DL Salvini svela il sospetto che i grandi principi di carità siano subordinati a ragioni di profitto. Si fa finta di non capire che i soldi dello Stato servono all'integrazione solo di chi ha ottenuto lo status di rifugiato, non di tutti i migranti sbarcati illegalmente in Italia. 

Attualità 10_03_2019

Il documento congiunto delle centrali cooperative emiliane sui tagli del decreto Salvini rischia di essere un boomerang. Anzitutto perché, lamentando un problema di cassa, i professionisti della migrazione hanno mostrato l’effetto collaterale della discutibile politica di accoglienza in atto in Italia dal 2012 che ha fatto proliferare un business di una domanda gonfiata dalla stessa offerta. Inoltre, rivela incautamente che il problema dei guadagni è dirimente e tutto questo fa sorgere il sospetto legittimo che i grandi principi di solidarietà umana e cristiana che certi campioni del catto progressismo spacciano come 11esimo comandamento, siano subordinati al tema non indifferente del ricavo.

Lamentarsi – come hanno fatto Legacoopsociali, Confcooperative e Agci Solidarietà nel documento “Accordo etico delle cooperative sociali per un’accoglienza dignitosa” – che con la nuova legge “non sono previsti l’utile di impresa e le spese generali” significa scoprire le carte e rivelare che il vero obiettivo è il profitto e che senza profitto non c'è accoglienza che convenga.

Profitto che invece il decreto Salvini, abbassando la quota di contributo statale pro capite/die da 35 a 21 euro, mira proprio a stroncare, impedendo che i professionisti dell’accoglienza possano programmare sulla base solo dei ricavi la loro attività “filantropica”. Ma non perché Salvini sia un nemico della libertà d’impresa, ma perché se una coop di quel tipo fa utili – e abbiamo visto che negli anni molti di questi utili erano frutto di vere e proprie creste sulla dignità del migrante – allora il business è cristallizzato e bisognerà continuare all’infinito con la politica assistenzialista per ingrossare i bilanci delle coop. E' lecito chiedersi se questo sia moralmente opportuno? 

Le belle parole con le quali le coop hanno condito il loro appello, il lacrimevole piagnisteo sui posti di lavoro persi degli operatori, sono un inganno. E così pure le sinistre quanto grottesche chiamate alle armi di alcune cooperative che hanno fatto investimenti.

Un esempio illuminante. La coop emiliana Dimora d’Abramo (realtà cattodemocratica che fino a pochi anni fa aveva nel suo board anche alcuni sacerdoti, tra cui don Giuseppe Dossetti junior), addirittura lamenta che sono stati fatti degli investimenti immobiliari. Quindi adesso lo Stato dovrebbe continuare ad alimentare il racket dei barconi per consentire alle coop di pagare la loro spesa? Detta così è brutale, ma leggendo le parole del suo presidente alla Gazzetta di Reggio non vengono in mente altre interpretazioni: “Una complicazione organizzativa ci preoccupa perché abbiamo fatto degli investimenti, comprando ad esempio degli appartamenti, abbiamo rinnovato dei contratti, ne abbiamo altri in essere con lavoratori professionisti”.

Cerchiamo di capire: se una coop fa investimenti e compra appartamenti per la gestione dei migranti, significa che spera che ne arrivino sempre di più; significa che non intende quella degli sbarchi come un’emergenza temporanea da regolare, ma come – nella più ingenua delle intenzioni – una ineluttabilità di cui farsi carico, con progetti seriamente strutturati e a lungo termine; significa che gli scafisti facciano pure il loro lavoro, le ong la loro parte e le coop massimizzino la gestione del richiedente asilo spacciandolo da migrante. E' la filiera messa in moto dalla politica immigrazionista che punta ad avere migranti, non a regolare i pochi richidenti asilo. 

Piagnisteo e vittimismo non reggono alla prova razionale della fotografia dell’attuale. Che dice tutt’altro. E cioè che quei soldi che oggi mancheranno all’appello nelle nuove aste, mancano per il semplice motivo che non servono allo straniero nella fase in cui viene accolto per il riconoscimento e le pratiche di ottenimento dello status di rifugiato.

Invece le coop hanno pianto su diverse voci, nella speranza che l’Italia si intenerisse, per la perdita di “qualità dei servizi”, “grande patrimonio etico e materiale”, “orientamento formativo e lavorativo”, “insegnamento della lingua italiana”, “sostegno nell’accesso ai servizi sanitari e sociali” e “presa in carico psico-sociale per le situazioni vulnerabili”.

Che cosa resta alle realtà dell’accoglienza con i nuovi bandi emessi dal governo? “Si delinea così una accoglienza ridotta di fatto al vitto e alloggio, al di sotto degli standard minimi previsti dalle Direttive Europee in materia”, dicono.

Ma gli standard minimi europei sono esattamente sulla linea attuale del governo dato che è questa una delle motivazioni dell’esecutivo per abbassare la cifra. Ora sarebbe interessante chiedere alle coop in nome di quale principio etico ai richiedenti asilo bisogna concedere qualche cosa d’altro che non siano vitto e alloggio? 

Il punto che non si accetta è la revisione dell’articolo 13 del decreto Salvini, in particolare l’introduzione del comma 1 bis che stabilisce come il richiedente asilo non possa ottenere l’iscrizione anagrafica e quindi i conseguenti benefici finché è in corso l’istruttoria da parte delle Commissioni asilo del Viminale o l’eventuale successivo ricorso giurisdizionale. 

I corsi di italiano, gli inserimenti lavorativi, le attività più o meno integrative sono costi che in questa fase lo Stato non può accollarsi perché queste attività andranno offerte soltanto a chi otterrà lo status di protezione. Nella fase dell’accoglienza, queste attività non servono e non servono anche perché il governo ha promesso tempi celeri nell’evasione delle pratiche per non stabilizzare una presenza che ha fatto aumentare i costi a dismisura.

Tutto questo non significa che lo straniero sia privo di qualsiasi assistenza: può godere della prima accoglienza, dal mantenimento all’assistenza sanitaria, ma gli viene tolto quel di più che le coop spacciavano come indispensabile per l’integrazione, ma che invece sarebbe indispensabile solo per chi ne ha veramente diritto. La norma dice che le misure di integrazione spettano a chi sia entrato in Italia in modo regolare, a chi abbia già ottenuto la protezione internazionale. Non a una massa indistinta sulla quale si continua a fare confusione. Una confusione – quella tra veri profughi e semplici migranti – che si diffonde prospettando masse di sbandati abbandonati a sé stessi, quando invece i dati danno gli arrivi in calo costante.

Nel frattempo, però, il governo sta accelerando le pratiche di asilo, sia davanti alle Commissioni, il cui personale è stato moltiplicato, sia nella fase del ricorso al giudice. E tutto questo risponde alla logica che non sia permesso il radicamento a una persona che nella gran parte dei casi ha proposto una domanda infondata ed è destinata a essere espulsa. 

Ma anche a fronte di questo calo considerevole, le coop, invece di rallegrarsi che ci sono meno schiavi importati dall’Africa per il “mercato” occidentale, lamentano il venir meno di lavoro e dunque di introiti. Che è un po’ come venire a sapere che in un reparto Infettivi di un grande policlinico, i ricoverati per Hiv sono sempre meno e invece di rallegrarsene, il forinitore di pasti chiede alla direzione sanitaria di predisporre anc­­ora più letti.