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LAICISTI

Scalfari domanda, il Papa ha già risposto

Per Repubblica è un vizio: stavolta le domande (quattro) sono per papa Francesco. Una sfida per dimostrare la superiorità del relativismo sul credere in una verità, ma in fondo quelle domande esprimono una profonda inquietudine.

Ecclesia 08_08_2013
Eugenio Scalfari

Quando ho letto che il 7 agosto Repubblica aveva proposto quattro domande cui Papa Francesco dovrebbe rispondere, mi sono allarmato. Considerati i precedenti di quel quotidiano in tema di domande, ho subito pensato a quesiti sulle frequentazioni notturne di qualche monsignore. La lettura dell'articolo di Eugenio Scalfari mi ha un po' rassicurato: la «lobby gay» non c'entra. Tuttavia, più che domande, si tratta di affermazioni. La quarta «domanda», più che al Papa, va posta ai sociologi della religione, e - avendo qualche titolo per intervenire - proverò a dire la mia. Le altre tre meritano pure un commento, perché ci dicono molto sulla psicologia di un'intera categoria, quella dei giornalisti laicisti di cui Scalfari è esimio - e, a suo modo, tipico - rappresentante.

Scalfari premette la sua professione di fede atea - è convinto che «Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinante della mente degli uomini» - e «in questa veste» pone la prima domanda: «Se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?».

Se la domanda non è semplicemente maliziosa - cioè non mira a mettere in imbarazzo i credenti, nel qual caso si tratterebbe di banalità -, ma è sincera, apre una finestra sul dramma della modernità descritto nell'enciclica «Lumen fidei». In tesi a un ateo come Scalfari non dovrebbe importare nulla del perdono di Dio. Ma nella vita pratica e concreta non è così. Anche l'ateo più ateo percepisce quello che l'enciclica chiama il buio della storia e - proprio mentre nega con le parole qualunque ricerca -, di fatto cerca un barlume di luce che apra alla possibilità della misericordia e del perdono. «Quello che per la Chiesa è un peccato» è comunque «qualcosa» che non lascia mai tranquillo chi lo ha commesso, perché si scontra con una legge di Dio iscritta in profondità nel cuore dell'uomo che nessun relativismo può completamente cancellare, e che genera inquietudine e domande.

Seconda domanda di Scalfari: «il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?». La risposta catechistica sarebbe facile: è un errore se il relativismo è professato in buona fede, per quella che la Chiesa chiama ignoranza invincibile. È un peccato se si diventa relativisti perché, pur vedendo che esiste una verità, si rifiuta la sua esistenza perché è più comodo sottrarci agli obblighi che da quel riconoscimento della verità derivano. Ma in realtà anche qui Scalfari non sta veramente parlando del Catechismo. Vorrebbe convincerci che il relativismo è migliore, più moderno, più efficiente della convinzione che esista la verità.

Su questo punto, Papa Francesco ha già risposto. Il 22 marzo, parlando al Corpo Diplomatico, il Papa ha fatto sua la nozione di «dittatura del relativismo», spiegando ai diplomatici - molti dei quali evidentemente non cattolici o non credenti - che il relativismo fa male perché l'assenza di un consenso sulla verità genera conflitti e violenze e «mette in pericolo la convivenza tra gli uomini».

Ancora il 6 agosto, Papa Francesco ha reso pubblico il suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale, dove denuncia con forza la convinzione - prevalente nella società e che si è insinuata anche nella Chiesa - secondo cui non esiste la verità. Questa mentalità relativista impedisce precisamente di portare agli uomini vittima della disperazione e della crisi l'aiuto più importante di cui hanno bisogno, che non consiste solo nel fornire loro cibo e vestiti ma nel rispondere alla loro domanda se questa vita abbia un senso.

Terza domanda di Scalfari: «Penso che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla». Credo che, in coscienza, la conosca già. Se il Papa pensasse che Dio sia semplicemente una proiezione del nostro pensiero, che sia stato l'uomo a creare Dio e non Dio a creare l'uomo, così che Dio sia destinato a scomparire quando scomparirà l'uomo suo creatore, allora il Papa sarebbe ateo. Neppure Scalfari può pensare questo, e anche lui si sarà chiesto, in qualche sera d'estate, da dove viene l'uomo e se sia davvero possibile che si sia fatto da sé o sia un prodotto del caso. Ancora una volta, la domanda - se non è puro esercizio di retorica capziosa - non cerca davvero una risposta, che è di per sé ovvia, ma esprime un'inquietudine.

Quarta domanda. Scrive Scalfari: «Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II». Secondo il giornalista, se la Chiesa davvero rinunciasse completamente ad avere una struttura, una banca, un'organizzazione economica «diventerebbe irrilevante» e alla fine sparirebbe. Questa è, anzitutto, un'affermazione sociologica, suscettibile come tale di una risposta sociologica. È vero: nessuna organizzazione sociale può sopravvivere senza una struttura, senza denaro e - se è grande - senza istituzioni finanziarie. Tutti i nuovi movimenti religiosi che hanno vagheggiato il ritorno alla Chiesa primitiva contro le «ricchezze» cattoliche poi si sono dotate di grandi strutture e anche di grandi banche.

Non c'è bisogno di seguire le teorie del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), il quale pensava che i protestanti avessero inventato il capitalismo - i banchieri fiorentini cattolici, senza leggere Weber, lo avevano già inventato due secoli prima della Riforma - per sapere che comunque le comunità protestanti sono alle origini di grandi società commerciali e di grandi banche. La comunità dei mormoni, che voleva restaurare la Chiesa nella purezza e nella semplicità originaria, controlla un impero economico e una delle grandi banche dell'Ovest americano, la Zion's Bank. I Testimoni di Geova, in proporzione al numero dei membri, maneggiano più denaro della Chiesa Cattolica. E così via. Le Chiese e le comunità non sono fatte di angeli ma di uomini, ed è semplicemente impossibile organizzare un corpo costituito da un gran numero di uomini senza lo scheletro istituzionale che comprende anche il denaro e la finanza.

Scalfari sul punto ha qualche ragione, ma sbaglia indirizzo per la sua domanda. Papa Francesco non è un teologo della liberazione alla Leonardo Boff, per quanto Boff oggi cerchi di strumentalizzare un Papa che in Argentina quel tipo di teologia l'ha sempre combattuta; non è un utopista, un ingenuo, un sognatore. Non ha mai manifestato nessuna intenzione di smantellare la struttura, anche economica, della Chiesa, di sbaraccare tutto, di tagliare i fondi ai missionari e alle Chiese dei Paesi in via di sviluppo, che senza gli aiuti - e le banche che veicolano gli aiuti - chiuderebbero in poche settimane. È un riformatore, non un dinamitardo. Vuole correggere l'abuso - che c'è -, ma sa che l'abuso non toglie l'uso. Non ci sarà dunque una Chiesa senza strutture e anche senza denaro e conti in banca, perché questa Chiesa sarebbe un'utopia destinata al rapido fallimento. Per quanto umanamente possibile, ci sarà - nelle intenzioni del Papa - una Chiesa libera da certi abusi.

Scalfari non ha forse sentito Papa Francesco spiegare, più di una volta, che cosa intende per «Chiesa povera per i poveri». È una Chiesa che non spreca, che rinuncia alle cose inutili - non certo a quelle necessarie - per «uscire» e andare a incontrare i «poveri», che non sono solo i poveri materiali ma anche i poveri spirituali, quelli che magari hanno tanti beni materiali ma non hanno la bellezza, l'amore, la verità, il senso della vita, la risposta alle loro domande più profonde. Poveri come il ricco Eugenio Scalfari. Che, quando si riconoscerà povero e non avrà vergogna a stendere la mano per chiedere,  in piena buona fede, le sue risposte, non scoprirà soltanto che la Chiesa e il Papa gliele hanno già date ma che esistono anche - iscritte da Dio - nel suo cuore. La voce di Dio parla a tutti, anche a Scalfari. Ma il relativismo cerca di soffocarla. Anche i propagandisti più accaniti della dittatura del relativismo, in fondo, di quella stessa dittatura sono povere vittime.