Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giuseppe a cura di Ermes Dovico
AVEVA 91 ANNI

A Dio Spaemann, l'ultimo grande filosofo cattolico

Robert Spaemann, morto ieri a 91 anni, è stato l’ultimo grande filosofo cattolico. La sua opera è stata una grande critica della modernità e una apologetica della ragione e della fede insieme a tutti i livelli nella verità. Il sodalizio con Benedetto XVI a Ratisbona. La denuncia di relativismo morale dopo la pubblicazione di Amoris laetitia.

Ecclesia 12_12_2018

“Che esista un essere chiamato Dio, è un’antica e intacitabile diceria. Questo essere non è una parte di ciò che accade nel mondo, è piuttosto fondamento e origine dell’universo. Si deve tuttavia alla diceria anche il fato che tracce e indicazioni di questa origine si trovino nel mondo stesso. E soltanto in questo sta il fondamento del perché su Dio si possono dire tante cose”. Così scriveva Robert Spaemann, il grande filosofo tedesco che ieri ha lasciato questa terra per quella promessa, nel suo libro La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità del 2007. Una di quelle frasi del professore a Monaco che aveva sostituito nel 1968 Hans-Georg Gadamer ad HeidelberG, che ci mancheranno perché in esse si poteva trovare nella verità l’incontro della ragione con la fede, il che anche ci fa capire il perché di tanta affinità e stima tra di lui e Benedetto XVI.

Spaemann è stato forse l’ultimo grande filosofo cattolico. Non dico cristiano, dico cattolico. La sua opera è una grande critica della modernità fatta con scopi ricostruttivi del sapere dopo il buio e della vita dopo la morte, una critica  genuinamente apologetica della possibilità che nella verità la ragione e la fede si incontrino a tutti i livelli. Della modernità, di cui si era occupato fin dal 1959 con L’origine della sociologia dallo spirito della restaurazione, egli ha criticato e superato tutte le contraddizioni: la sua negazione della natura, per esempio, nel libro Rousseau cittadino senza patria del 1980 ove viene denunciato l’inganno dell’utopia la sua negazione filosofica e religiosa del peccato originale ancora in La diceria immortale;  il relativismo morale e l’etica fai da te della coscienza libertaria in Concetti morali fondamentali del 1986; il suo anti-finalismo vale a dire la negazione che le cose non siano solo spinte da dietro ma anche attratte da davanti da parte di un fine che dà loro senso in Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico del 1981 e poi rieditata nel 2005 in Germania e in Italia da Ares nel 2013; la sua deprivazione e annichilimento della persona in Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno” del 1996, editata in Italia da Laterza. 

Dopo l’elezione di Benedetto XVI fu evidente che le prospettive dei due si incontravano. Nella lectio di Regensburg (2006) di papa Benedetto si possono trovare molti spunti anche del pensiero di Spaemann. “La verità inevitabilmente è intollerante. Tolleranza c’è non verso l’errore, ma soltanto verso l’errante”: così scriveva Spaemann nel saggio “Benedetto XVI e la luce della ragione” pubblicato, all’indomani di Regensburg e delle polemiche lì suscitate, nell’opera collettiva del 2007 Dio Salvi la ragione (Cantagalli). La tolleranza per tutto e per tutti tipica dell’attuale fase terminale del pensiero moderno si fa intollerante proprio negando e combattendo l’intolleranza della verità, senza della quale, però, non si riesce nemmeno a fondare la verità della indiscutibile tolleranza. Per negare il dogma bisogna essere dogmatici. Così il pensiero si condanna a morte e – nota argutamente Spaemann – se l’uomo non sa mai andare oltre se stesso, come oggi si dice, come fa a saperlo? Per sapere se l’uomo sia incapace di verità bisogna già aver trasceso lo spazio della coscienza ed aver già avuto accesso alla verità. Tramite lampi di questo genere Spaemann dava ai suoi lettori la gioia intellettuale e la fiducia che, sapendolo vedere con gli occhi giusti, tutto ha un senso.

Di recente, con l’acuirsi di molte questioni problematiche dentro e fuori la Chiesa, Spaemann era intervenuto anche su grandi temi di attualità come quello dell’Europa, della liturgia e della Chiesa del pontificato di papa Francesco. 

Egli vedeva l’Europa prigioniera del “nichilismo debole”: “Nessun pastore e nessun gregge. Ciascuno vuole la stessa cosa. Ciascuno è la stessa cosa. Chi ha una sensibilità diversa, va spontaneamente al manicomio. Oggi si chiama anche liberalismo e per tutto ciò che non si rassegna ad esso si ha già a disposizione il termine intimidatorio ‘fondamentalismo’. Così inteso, un fondamentalista è chiunque possegga qualcosa che gli appare serio, qualcosa di indisponibile”. 

L’autoaffermazione velleitaria del nichilismo debole ha bisogno di scontarsi con il sacrificio del Golgota che si rinnova sull’altare: “Deve esser consentito riflettere – scriveva nel 1991 – sul perché, a partire dagli anni Sessanta, questo sia, improvvisamente e completamente, andato perduto”. Da qui la necessità di una “restaurazione di una celebrazione della Messa, in cui il carattere del Mistero, del sacrificio e della preghiera, sgorghi in modo inequivocabile…Questo può accadere soprattutto attraverso la restaurazione di un comune orientamento che assume la preghiera del sacerdote e del popolo. La generale diffusione del cosiddetto altare del popolo cancella la differenza tra altare e pulpito. E quando il microfono sopraggiunge sull’Altare, viene quasi inevitabilmente suscitata l’impressione che il sacerdote sia un animateur”.

Più di recente, dopo la pubblicazione di Amoris laetitia (2015), Spaemann era intervenuto in modo molto duro sull’Esortazione apostolica. La mancanza di risposte da parte del papa ai “Dubia” dei quattro cardinali lo aveva riempito di “grande preoccupazione” perché in quel modo “il magistero supremo si inabissa”. Nell’aprile 2016, in una intervista alla Herder Korespondenz, Spaemann aveva previsto le conseguenze: “incertezza e confusione, dalle conferenze episcopali al parroco nella giungla”. Fino alla affermazione dirompente: “Il papa avrebbe dovuto sapere che un passo del genere avrebbe spaccato la Chiesa portandola verso uno scisma che non si verificherebbe in periferia, ma nel cuore stesso della Chiesa.

C’era da aspettarsi qualcosa di diverso da chi aveva affermato che “La verità inevitabilmente è intollerante. La tolleranza c’è non verso l’errore, ma soltanto verso l’errante”?