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TURCHIA

Ankara, ucciso l'ambasciatore russo

Tutto si può dire tranne che l'attentato di ieri pomeriggio ad Ankara con l'uccisione dell'ambasciatore russo Andrey Karlov sia un dramma consumatosi a sorpresa. I terroristi hanno voluto punire il riavvicinamento fra Turchia e Russia, determinante per l'esito della battaglia di Aleppo. Hanno punito una nazione "traditrice".

Esteri 20_12_2016
L'assassino turco dell'ambasciatore russo ad Ankara

Tutto si può dire tranne che l'attentato di ieri pomeriggio ad Ankara con l'uccisione dell'ambasciatore russo Andrey Karlov sia un dramma consumatosi a sorpresa. Come scriviamo da settimane, il riavvicinamento tra la Turchia e la Russia dopo il fallito golpe di luglio ad Ankara è stato un ingrediente fondamentale per l'esito della battaglia di Aleppo. Ed è una delle poste in gioco più alte nella fase nuova apertasi con la sconfitta del fronte jihadista nella seconda città della Siria: il terrorista di ieri, infatti, ha colpito proprio alla vigilia del vertice di Mosca tra i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia, annunciato come l'inizio del primo serio tentativo politico di mettere fine alla guerra in Siria.

Del resto le modalità dell'agguato all'ambasciatore Karlov - colpito mentre parlava all'inaugurazione di una mostra da uno degli agenti di polizia che avrebbero dovuto proteggerlo - non devono ingannare: pensare alla reazione personale di un uomo rimasto «impressionato» dalle immagini diffuse da Aleppo dai media anti-Assad sarebbe decisamente naive. Dopo giorni di manifestazioni in Turchia contro i raid russi, se c'era un obiettivo sensibile ad Ankara era l'inaugurazione di una mostra fotografica dal titolo «La Russia con gli occhi dei turchi». E il fatto che proprio lì qualcuno abbia potuto colpire l'ambasciatore russo mentre pronunciava il suo discorso davanti alle telecamere, la dice lunga sul grado di infiltrazione jihadista delle forze di sicurezza turche. Che poi sono le stesse che fino a pochi mesi fa - per usare un eufemismo - facevano finta di non vedere i foreign fighters che entravano in Siria. Mentre persone vicinissime al presidente Erdogan facevano affari con il petrolio dell'Isis (e chi in Turchia osava denunciarlo oggi si trova all'estero, in carcere o più banalmente non ha più un giornale su cui scriverlo).

Ankara paga oggi il prezzo di ciò che ha seminato. Ma c'è anche un altro elemento che vale la pena di sottolineare: il salto di qualità nell'offensiva terroristica è arrivato con una precisione chirurgica dopo la caduta di Aleppo. Non solo come tempistica; anche per la scelta degli obiettivi: domenica 11 la cattedrale dei copti al Cairo; domenica 18 in Giordania una località turistica come il castello di Karak; ieri l'ambasciatore russo in un evento pubblico ad Ankara. Tutti attentati in situazioni che sulla carta avrebbero dovuto essere tra le più controllate. Tutti Paesi a maggioranza sunnita per diverse ragioni accusati di «tradimento» rispetto alla guerra in Siria: l'Egitto di al Sisi per il riavvicinamento ad Assad che ha accompagnato la rottura coi sauditi; la Giordania per aver messo ormai da tempo in stand-by il fronte Sud della guerra in Siria; la Turchia per aver scelto la guerra contro i curdi come propria nuova priorità, abbandonando al loro destino i miliziani di Aleppo (salvo poi ricomparire sulla scena per trattare la loro resa e guadagnarsi un posto al tavolo negoziale con Mosca e Teheran).

Il messaggio è abbastanza chiaro: c'è un'offensiva organizzata in corso, che mira a cercare rivincite su nuovi fronti in Medio Oriente. La battaglia in Siria è persa? Ci sono altri Paesi da trasformare in campi di battaglia. E la Turchia è pericolosamente in cima alla lista: Erdogan stesso ce l'ha collocata. Perché anni di connivenze con i movimenti jihadisti non si cancellano con un tratto di penna; perché la deriva autoritaria ha tolto di mezzo forze e persone che avrebbero potuto fare da argine; perché in Turchia una guerra c'è già - quella contro i curdi del Pkk al sud - e un conflitto è sempre l'habitat migliore per il radicalismo. Senza dimenticare i tre milioni di profughi siriani che tuttora vivono entro i confini del Paese.

Sarebbe folle lanciarsi oggi in previsioni; però - dopo tutto quello che è successo in questo 2016 in Turchia - una cosa almeno dovrebbe essere chiara: il futuro passa da lì. Erdogan e Putin ieri sera si sono parlati e hanno detto che la «provocazione» non farà saltare l'intesa tra i due Paesi; il vertice a tre con l'Iran resta confermato, il che non era affatto scontato. Come pure - ieri sera - l'evacuazione incrociata di Aleppo Est e dei villaggi sciiti di Foua e Kafraya andava avanti. Ma il dopo Aleppo è iniziato e come si temeva rischia di essere lo stesso sanguinoso. E sta all'Europa e agli Stati Uniti ora decidere da che parte stare (e quanto accaduto a Berlino dovrebbe suonare come l'ennesimo monito).

Prima ancora di questa nuova fiammata di violenza ieri mattina da Gerusalemme l'amministratore apostolico del patriarcato latino Pierbattista Pizzaballa, ricordando la «completa tragedia» che si è compiuta per i cristiani in Siria, Iraq ed Egitto - diceva: «Con l’esercito si può vincere una guerra, ma per ricostruire serve la politica. E non la vediamo». Probabilmente è proprio per questo che continuiamo a vedere solo sangue e nuove ferite.