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MONZA

Arcobaleno sull'altare e migranti al posto della Via Crucis

Se ci lamentiamo per le liturgie creative stiamo sbagliando in pieno. Sì, perché i preti sono monotoni e ripetitivi: parlano solo di "migranti". L'ultimo caso in ordine di tempo è quello di una parrocchia di Monza, Regina Pacis, che ha sostituito i quadri della Via Crucis con le foto degli immigrati e ha steso la bandiera arcobaleno sull'altare.

Ecclesia 08_01_2018
Arcobaleno sull'altare della parrocchia Regina Pacis, Monza

Se ci lamentiamo per le liturgie creative stiamo sbagliando in pieno. Sì, perché i preti tutto sono tutto tranne che creativi. No, no, sono monotoni e ripetitivi, noiosi fino allo sfinimento, appiattiti come gregge sull’ultimo grido del clericalmente corretto. Ormai sono anni che approfittano dei presepi per «lanciare un messaggio», e questo messaggio è sempre lo stesso: i migranti. Gommoni al posto delle mangiatoie, barconi al posto delle grotte, il trio Gesù-Maria-Giuseppe in versione afro, e sempre la solita solfa monocorde, il solito faro puntato sulla «tragedia» dei migranti, tanto per tirare la volata alla Caritas che, con le Coop, con l’«accoglienza» ci va a nozze.

Ora, passato il Natale, i migranti in chiesa sono finiti nelle Stazioni della Via Crucis. A Monza, capoluogo della Brianza, due passi da Milano, parrocchia Regina Pacis. Al collettivo dei preti della comunità pastorale, all’unanimità, è parso bene di sostituire i quadretti della tradizionale Via Crucis, quei quattordici che in tutte le chiese punteggiano a intervalli regolari le pareti, con foto di migranti. I quali, data la nostra situazione geografica, ormai sono tutti africani. Poi, tanto per non farsi mancare nulla, sull’altare è stata messa la bandiera arcobaleno. Che – non malignate - non è solo quella dei Lgbt, ma anche il simbolo – da qualche tempo a questa parte - del pacifismo. Forse che la parrocchia non è intitolata alla Regina Pacis (=della pace)? Dunque… Sì, ma qualche parrocchiano si è scocciato di queste melensaggini politicamente corrette. E si è lamentato. In effetti, sarebbe ora di finirla con questi preti che considerano le chiese e la liturgia di loro esclusiva proprietà e hanno ripristinato la definizione giustinianea del corrispondente diritto: «jus utendi et abutendi». Che, tradotto alla larga, sarebbe: la chiesa è mia e ci faccio quel che mi pare. I fedeli in disaccordo hanno mugugnato; quelli di osservanza leghista, che da quelle parti non sono pochi, hanno alzato la voce. E hanno definito «giusta e comprensibile» la decisione di quei fedeli che hanno espresso la loro opinione coi piedi, alzando i tacchi e uscendo di chiesa.

Ora, poiché la bella trovata della new-viacrucis e del drappo multicolor i preti della comunità pastorale implicata l’anno escogitata all’unanimità, il segretario della Lega sta pensando di adire l’arcivescovo. Anche perché alla cerimonia inaugurale del colpo di genio era stato invitato anche il locale imam, il quale ha recitato una sura del Corano. Il parroco, sentito dal «Giornale di Monza», ha risposto: «Ci dispiace che non sia stata capita la forza di questo messaggio». Che la «forza» sia con lui, perché a noi il «messaggio» pare proprio banale e ritrito. Non solo. Questa cosa che nessuno ha capito, tranne i preti ideatori del «messaggio», sa tanto di disprezzo clerical-chic per il popolo-bue che non si commuove come lor signori per la ria sorte del migrante. Il quale è ormai diventato una sorta di Vitello d’Oro, a cui ripetere incessantemente santo-santo-santo. Mah. Certo, prima, di noioso e ripetitivo c’era solo l’omelia, nella quale il celebrante meno aveva da dire e più lo diceva, così da estenuare per venti-venticinque minuti l’uditore obbligato a stare seduto e zitto per tutto il tempo. Ora ci si mette anche l’arredo, così che il tedio sia totale. Aridàteci gli anni Settanta, quando tra i preti furoreggiava il comunismo e al posto del migrante c’era l’operaio. Ricordate? Allora san Giuseppe era un lavoratore. Oggi è diventato profugo.