Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giuseppe Lavoratore a cura di Ermes Dovico

LA SRPSKA VUOLE L'INDIPENDENZA

Bosnia a un bivio, un referendum rischia di farla saltare

I cittadini dell’entità a maggioranza serba della Bosnia saranno chiamati a rispondere al quesito che istituisce il giorno della Repubblica. Sarajevo accusa i “separatisti” di giocare col fuoco. Sullo sfondo il conflitto etnico-religioso tra ortodossi e musulmani che potrebbe far saltare gli accordi di Dayton.

Esteri 09_09_2016

Sebbene manchino ancora 20 giorni, il referendum che si terrà in Republika Srpska il prossimo 25 settembre è già atteso con ansia da buona parte degli Stati eredi della Jugoslavia e soprattutto dalle Autorità centrali di Sarajevo (in primis la Corte Costituzionale), che hanno cercato di impedire lo svolgimento della consultazione in quanto non autorizzata ufficialmente e considerata per l’unità del Paese.

In quell’occasione, infatti, i cittadini dell’entità a maggioranza serba della Bosnia saranno chiamati a rispondere ad un quesito semplice ma di vitale importanza per le sorti della federazione: “Siete d’accordo che il 9 gennaio si proclami e si festeggi il Giorno della Repubblica?”. La data in questione riveste, per la componente ortodossa del Paese, una particolare importanza perché celebra la fondazione, avvenuta nel 1992, del primo consiglio serbo contrario all’indipendenza da Belgrado proclamata da croati e musulmani. Come è facile immaginare, l’eventuale vittoria dei sì significherebbe che quasi un terzo degli abitanti del Paese ritiene che la festività più importante dell’anno sia quella in cui si celebra il primo tentativo di evitare l’esistenza stessa della Bosnia come stato indipendente.

Come è facile immaginare, Valentin Inzko, l’Alto Rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, ha bocciato senza mezzi termini la linea promossa da Banja Luka (capitale della Republika Srpska), accusando i suoi leader di “giocare con il fuoco”. Particolarmente dura è stata anche la posizione di Bakir Izetbegovi, rappresentante della componente bosgnacca della Federazione, che si è scagliato contro il Referendum, definendolo contrario agli accordi di Dayton, e che ha tirato in ballo anche Belgrado in qualità di garante dell’ordine costituito.

Secondo il leader musulmano, infatti, la Serbia si trova suo malgrado coinvolta in una situazione potenzialmente pericolosa a causa del “suo fratello minore” (i serbo-bosniaci), il che, a suo dire, ricorda da vicino quello del 1992-1995, quando fu la Jugoslavia di Miloševic a pagare per le azioni di Mladic e Karadžic. In ogni caso, Izetbegovic ha anche rinfacciato al Governo di Belgrado di non aver preso una posizione decisa e di aver preferito restare a metà strada fra chi sostiene le rivendicazioni di Banja Luka (la Russia) e chi, invece, le condanna apertamente (l’Europa e gli USA). Sebbene l’intento di tali affermazioni sia chiaramente polemico e provocatorio, il politico musulmano ha correttamente evidenziato la difficile condizione in cui si trova ad operare l’Esecutivo guidato da Vucic.

Il Primo Ministro serbo, infatti, non può dare apertamente il proprio sostegno a Dodik, in quanto ciò significherebbe mettere in grave pericolo gli accordi di Dayton e, soprattutto, la stabilità del suo stesso Paese, che verrebbe sicuramente accusato di “Grande serbismo” da tutti i vicini e dall’Occidente. Al contempo, però, egli non può neanche distanziarsi troppo dai fratelli bosniaci, che da anni rivendicano il loro diritto alla secessione, sull’esempio di quanto fatto in precedenza da sloveni, croati, bosniaci, montenegrini e albanesi kosovari. Proprio quest’ultimo aspetto, infatti, riveste una notevole importanza, poiché agli occhi di molti abitanti della Republika Srpska il diritto all’autodeterminazione è stato concesso a tutti fuorché ai serbi di Bosnia.

Al di là di queste considerazioni comunque, è assolutamente opportuno sottolineare che l’azione di Dodik non rappresenta, come scritto da molti, la causa delle crescenti difficoltà incontrate dalla Bosnia (a livello economico e sociale), quanto piuttosto l’ovvio comportamento di un politico abile a manipolare il forte malumore presente e la crescente distanza esistente tra i gruppi etnici. Dalla fine della guerra, infatti, il Paese non solo non è riuscito a far aumentare la coesione interna, ma non è stato neanche in grado di migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini. Per usare un’espressione forte, si potrebbe dire che la sopravvivenza di Sarajevo è resa possibile solo grazie “all’accanimento terapeutico” con cui l’Europa e gli USA cercano di impedire il riassestamento dei Balcani secondo le (difficilmente individuabili) linee etniche.

Tale sforzo, però, sembra non produrre i risultati sperati, in quanto continua ad essere forte, in Bosnia come altrove, il desiderio di ricongiungersi con la propria “madrepatria”, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe avere. A distanza di 25 anni dalla morte della Jugoslavia, pertanto, è possibile affermare che gli errori compiuti in quell’occasione stanno presentando, con sempre maggiore insistenza, il conto e che nessuno sembra pronto a pagarlo. Per quanto difficile e, forse, addirittura irrealizzabile, sarebbe pertanto opportuno riconsiderare l’atteggiamento che noi europei stiamo tenendo nei confronti della nostra appendice balcanica. Solo così, infatti, potremmo avere la speranza di riuscire a migliorare le condizioni di vita delle genti che abitano questa sfortunata penisola o, per lo meno, a evitare che le tensioni locali sfocino nuovamente in un confronto armato.