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BALCANI

Bosnia, i serbi scalpitano per una maggior autonomia

Un referendum nella parte serba della Bosnia ha decretato che il 9 gennaio sarà, d'ora in avanti, festa nazionale della Repubblica Serba. Il voto, apparentemente irrilevante, ha invece un duro impatto sui fragilissimi equilibri su cui si regge la Bosnia sin dal 1995. Perché è vista come la prima tappa per la separazione dei serbi.

Esteri 27_09_2016
Dodik al voto

Le urne sono ormai chiuse da più di 24 ore, ma il referendum organizzato dalla Republika Srpska (RS) per stabilire se il 9 gennaio dovesse essere considerato la sua “Festa della Repubblica” continua a far discutere (e molto) i politici locali.

Sebbene il voto fosse incentrato su un tema scarsamente rilevante e non in grado di far ottenere ai serbi di Bosnia l’agognato ricongiungimento con Belgrado, infatti, l’affluenza è stata buona (oltre il 56%, la stessa quota con cui nel 2006 il Montenegro ottenne l’indipendenza) e la percentuale dei “Sì” è stata schiacciante, raggiungendo il 99,8%. A nulla sono pertanto valsi il boicottaggio della consultazione indetto dai croati e dai bosgnacchi (che insieme rappresentano il 20% della popolazione della RS), nonché le forti pressioni esercitate sull’elettorato da parte del Governo centrale di Sarajevo, dalla Corte Costituzionale e, soprattutto, da Unione Europea e Stati Uniti.

Le reazioni degli avversari di Dodik (Presidente della Srpska) non si sono fatte attendere: Bakir Izetbegovi?, membro musulmano della Presidenza tripartita del Paese, ad esempio, lo ha di fatto paragonato ad alcuni leader recentemente eliminati dalla coalizione euroatlantica come Saddam Hussein, Gheddafi e Miloševi?. Il Pubblico Ministero della Bosnia Erzegovina, invece, per bocca del suo portavoce ha informato la stampa che Dodik sarà presto convocato a Sarajevo per essere ascoltato nell’ambito del procedimento aperto per aver violato la decisione con cui la Corte Costituzionale proibiva il referendum. Al di là di queste affermazioni, comunque, è innegabile che il voto di domenica rappresenta anche una grossa opportunità per i leader politici musulmani del Paese. Questi, infatti, grazie alla diffusa opinione secondo cui il prossimo passo della RS sarà quello di cercare l’indipendenza, potranno cercare di serrare le fila della propria comunità, mettendo a tacere soprattutto coloro i quali hanno sino ad ora criticato la passiva accettazione del sostegno proveniente da Ankara e Riad e pagato con l’adesione ad una visione più radicale dell’Islam. 

Neanche le reazioni degli stati confinanti si sono fatte attendere, anche se va evidenziato come queste siano state probabilmente molto più contenute di quanto si aspettassero in molti. La Serbia, ad esempio, si è limitata ad esprimere la propria soddisfazione per il fatto che il referendum si è svolto nella più assoluta tranquillità e senza incidenti, mentre la Croazia, per bocca del suo Ministro degli Esteri, ha convenuto con Mosca che al momento attuale è fondamentale continuare a garantire l’esistenza della Bosnia sulle basi di quanto stabilito dagli Accordi di Dayton. Come si può notare, quindi, né Zagabria né Belgrado si stanno dimostrando particolarmente preoccupate dalle sorti della Bosnia, anche se la prima, in funzione anti-serba, continua a dichiararsi una convinta sostenitrice del potere di Sarajevo. Più problematica risulta, invece, la posizione presa da alcuni media croati, che stanno in queste ore indirettamente supportando l’idea che l’Alto Rappresentante dell’ONU rimuova Dodik con un atto senza precedenti. Pur avendone egli la facoltà, si tratterebbe di un’azione dalle conseguenze imprevedibili, che rischierebbe soltanto di esasperare un dibatto che sino ad ora si è mantenuto civile e pacato. Eliminare il Presidente della RS, infatti, darebbe (nuovamente) l’impressione che la Comunità Internazionale non sia disposta ad accettare la volontà del popolo serbo, neanche dopo aver concesso l’indipendenza al Montenegro (tramite votazione) e al Kosovo (attraverso una discussa risoluzione unilaterale). 

Al di là di queste considerazioni, comunque, ciò che più conterà nelle prossime ore saranno le posizioni delle grandi potenze interessante a cambiare o mantenere lo status quo nell’area. Federica Mogherini, ad esempio, non ha ancora espresso il suo punto di vista, pur avendo utilizzato i social network per informare i suoi followers sull’andamento delle sue attività di questi giorni. Similmente, anche Russia e Stati Uniti sono rimasti insolitamente silenziosi, forse per dare più spazio all’aspro dibattito sorto in merito alla Siria, vera zona di scontro fra Washington e Mosca. 

In conclusione, pare chiaro che l’unica strada realmente percorribile per risolvere la questione bosniaca e scongiurare una futura scissione sia quella di operare affinché vi sia un superamento delle logiche settarie che hanno dominato la vita politica locale negli ultimi 20 anni. Ciò sembra, però, sempre più difficile, poiché le differenze fra i vari gruppi etnici sono cresciute, soprattutto in seguito alla progressiva reislamizzazione delle comunità musulmane. Se l’influsso turco e delle Monarchie del Golfo continuerà ad aumentare infatti, è difficile immaginare che lo Stato possa continuare a reggersi così come è, tanto più che manca completamente un collante (come possono essere la condivisione di valori o l’identificazione in una Patria unita) in grado di far coesistere tre fedi diverse in un’area depressa e travagliata da secoli di rivalità e inimicizie.  I leader locali, con Dodik in testa, inoltre, non sembrano assolutamente interessati a fare qualsivoglia sforzo affinché le cose migliorino (o, almeno, non peggiorino), anche se ciò vuol dire guidare il Paese dritto verso l’abisso.