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Caos Siria: la verità dei cristiani

  • Le rivolte contro il presidente Bashar al-Assad, la brutale repressione dell'esercito: non tutti i conti tornano. Parla la superiora delle monache trappiste presenti in Siria.

  • "C'è sicuramente desiderio di giustizia e libertà, ma la gente si rende conte che anche tra i manifestanti c'è un'ala violenta".
     
  • Adesso la convivenza è diventata più difficile: "Pregate per i cristiani, che non siano loro a pagare il prezzo del caos".

Attualità 05_10_2011
Monastero Trappiste
Non è facile capire davvero quanto sta succedendo in Siria. Da settimane - ormai - ogni venerdì i notiziari ci ripetono lo stesso schema: le manifestazioni contro il presidente Bashar al-Assad, i morti negli scontri (purtroppo ormai tanti) e le dichiarazioni di qualche leader occidentale sull'insostenibilità di questa situazione. Ma appena si prova a guardare dentro un po' meglio a questa grave crisi, si scopre che non tutti i conti tornano: a scombinare le carte ci sono soprattutto le voci dei cristiani siriani, preoccupatissimi per la piega che potrebbe prendere il Paese una volta caduto Assad. Come leggere, allora, questa lunga stagione calda di Damasco?

Abbiamo chiesto un aiuto a chi guarda tutto questo da un punto di vista particolare: da sei anni e mezzo, infatti, una comunità di monache trappiste provenienti dal monastero italiano di Valserena, in provincia di Pisa, ha aperto nel Paese la nuova comunità «Beata Maria Fons pacis». Vivono in un piccolo villaggio non lontano dal confine con il Libano. Donne del silenzio, del lavoro, della preghiera, ma anche della condivisione della vita con la gente che abita intorno al monastero. Musulmani compresi. E allora sorge spontanea la domanda: come si vive fra la gente semplice l'attuale crisi della Siria?

Ci risponde suor Marta, la superiora della comunità, in questi giorni in Italia. Precisa subito che la sua «non è certo l'analisi di un'esperta, ma solo quello che abbiamo capito noi ascoltando la gente con cui viviamo». Però non sfugge affatto alle domande su quanto sta succedendo, delineando un quadro un po' diverso rispetto a quanto siamo ormai abituati ad ascoltare. Intanto a non funzionare è proprio lo stereotipo della gente unita contro il dittatore. «Da quello che abbiamo potuto vedere - racconta suor Marta -, la partecipazione alle prime manifestazioni in sostegno del presidente Bashar era libera, sincera. Lui era davvero anche amato e benvoluto da tanta gente. Adesso certamente - con il passare del tempo - è cresciuta una coscienza un po' più critica: c'è un desiderio di più giustizia e più libertà. Però tanti si rendono conto che anche tra chi protesta c'è una parte violenta che vuole sfruttare questa situazione per prendere il potere. E allora dicono: cambiamo, sì, ma non in questo modo. Anche la maggioranza dei sunniti, fino ad oggi, la pensa così».

È in questa prospettiva che va letta, dunque, la posizione dei cristiani siriani. «Non si tratta di coprire le violenze - continua la superiora del monastero di 'Azeir -; semplicemente non vogliono cadere in una situazione come quella dell'Iraq. Spesso sono gli stessi profughi iracheni rifugiatisi negli ultimi anni in questo Paese a dire: qui finirà come da noi. C'è tanta paura che la destabilizzazione possa portare la Siria al caos. E ci sono già segnali preoccupanti in questo senso: noi viviamo in una zona in parte sunnita e in parte alawita. Prima non c'erano mai stati problemi di convivenza; adesso invece gli alawiti hanno iniziato ad aprire i propri negozi, perché hanno paura di passare nei quartieri dei sunniti. E viceversa ci sono sunniti che non vanno più nelle zone degli alawiti. Questa frammentazione è un fatto nuovo. Così la vita sì, va avanti, ma dentro a un'aura di sospensione, di incertezza rispetto al futuro, che tocca in maniera particolare proprio i cristiani».

C'è poi anche un altro elemento da tenere presente: «Con la protesta - spiega la religiosa - si intrecciano anche regolamenti di conti tra bande criminali, contrabbando di armi, lotte tra famiglie. Anche per questo motivo la gente semplice, quando parla degli interventi armati dell’esercito, dice: “Finalmente, era ora che facessero pulizia. O ammazzano loro oppure la stessa sorte toccherà a noi”. Noi proviamo a spiegare che non è con il sangue che si risolve una situazione del genere. Ma loro ci ripetono lo slogan che hanno sentito echeggiare nelle manifestazioni ad Homs: “I cristiani in Libano, gli alawiti alla tomba”. E ci chiedono: “Perché l'Occidente non capisce?”». Si parla molto anche di complotti e interventi stranieri: «Io non so - commenta suor Marta - se davvero, come dicono qui, ci sia un piano di potenze straniere per la frammentazione della Siria. Ma di fatto sappiamo di terreni e case comprati da sauditi, o con i loro soldi, sappiamo che entrano in Siria armi, sovvenzioni ed anche persone per incrementare la destabilizzazione».

Le chiediamo che cosa potrebbero fare per loro i cristiani che vivono in Occidente. «Pregate perché i cristiani della Siria ottengano il dono del discernimento e del consiglio - ci risponde -, perché possano diventare strumento per la maturazione delle coscienze. I conflitti che stanno esplodendo probabilmente covavano sotto la superficie, la necessità di un cambiamento è reale. Ma non possono essere i cristiani a pagarne il prezzo. Ad esempio qui tutti sono orgogliosi del loro essere siriani, ma si fatica a veder tradotto questo sentimento in un'idea di bene comune da promuovere per tutti. Tanti giovani hanno una grande sete di formazione, di cultura, di un respiro più largo: qualcosa che non trova ancora una vera risposta nel regime, ma neppure nelle Chiese... Ma il punto è che non può essere qualcuno dall'esterno a decidere sulla loro pelle. Anche come Chiesa a volte abbiamo la tentazione di fare discorsi teorici, molto occidentali, che non fanno i conti con la paura e la fatica di questa nostra gente. Devono poter tracciare il proprio cammino, non subirlo».

È anche lo spirito del monastero delle trappiste di 'Azeir: «Fin dall'inizio - conclude suor Marta - abbiamo tenuto un profilo molto basso, come è proprio del nostro stile. Viviamo giorno per giorno, tra la gente: piantiamo il nostro orto, preghiamo, portiamo il desiderio di futuro di tutti, senza grandi discorsi. Come comunità monastica in questo modo sperimentiamo il radicamento con un popolo, perché la nostra è la vocazione dello “stare”. Quando siamo venute qui, sei anni e mezzo fa, non potevamo immaginare che oggi ci saremmo trovate in mezzo a questa situazione di crisi. Ma quanto sta succedendo non fa altro che riconfermarci nella nostra vocazione: dove altro avrebbe più senso un monastero oggi se non qui?».