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ZUPPI & BERTINOTTI

Cattocomunisti, giù le mani da Guareschi

Il vescovo Zuppi e Bertinotti insieme per Guareschi in chiave vagamente antisalvini. Il collante? "Don Camillo e Peppone guardavano a quello che li univa e non a ciò che li divideva". Il solito refrain del cattocomunismo, che dopo aver prodotto solo fallimenti viene sulle rive del Po per appropriarsi di un uomo libero che impegnò la vita per non essere schiavo del potere e dei compromessi. E che del cattocomunismo, con i suoi personaggi, era l'esatta antitesi.

Editoriali 18_02_2019

Per favore, lasciateci almeno don Camillo e Peppone, lasciateci quel mondo piccolo che è il nostro mondo, non è la teologia del popolo, ma è il popolo teologo cui bastava alzare gli occhi al campanile per scorgervi Dio. In perenne crisi d’astinenza da telecamere, il narcisismo ecclesiastico e quello politico si incontrano nella casa natale di Giovannino Guareschi. 

Matteo Maria Zuppi e Fausto Bertinotti, uno arcivescovo di Santa Romana Chiesa, corrente egemone santegidina, l’altro subcomandante sconfitto da una scia inarrestabile di tracolli politici e ideologici del comunismo. 

Il prelato, che si atteggia a don Camillo con l’arma della pacca sulla spalla e l’ex segretario rifondarolo che gioca ad essere la reincarnazione di Bottazzi senza comandare più neanche un consiglio comunale. Più che ossimori, sposi forzati della più colossale modificazione genetica del ‘900 politico: il cattocomunismo. 

Al teatro Verdi di Busseto va in scena un evento organizzato dall’Arcidiocesi di Bologna in trasferta: una lettura dei testi di Guareschi. Dalla cronaca che ne fa Repubblica il senso è stato questo: “Dalla contrapposizione tra un uomo di cultura marxista e uno di Chiesa, risalta invece una sostanziale convergenza di sapore dossettiano proiettando un’aura di amara nostalgia per la politica che fu innervata di grandi passioni ideali”. 

Convergenza? Non stentiamo a crederlo dato che sia Zuppi che Bertinotti sono figli di quella stagione di cui oggi vediamo i frutti rovinosi: “Guardiamo più a quello che ci unisce, che a quello che ci divide”. Frase che Guareschi non si sarebbe mai sognato di pronunciare. Per anni ce la siamo sentita ripetere come mantra. Un compitino, condito dalla solita accusa strisciante al populismo attuale. 

Però, almeno adesso non toccateci Guareschi, non cercate di mettere il vostro cappello su un uomo che non aveva nulla a che fare con la vostra pretesa così accomodante. Perché Guareschi e il suo don Camillo non hanno nulla a che fare con il cattocomunismo, ne sono l’esatta antitesi, l’anticorpo perfetto. L’errore che tanto Zuppi quanto Bertinotti fanno, e con loro tutti quelli che equiparano don Camillo a Peppone a anticipatori del compromesso storico è quello di spacciare l’affetto di don Camillo per Peppone, ricambiato, come un preludio dell’abbraccio mortale tra cattolici e marxisti. 

Usare Guareschi in chiave anti salviniana. Un furbesco errore e una falsificazione. 

No, cari Zuppi e Bertinotti, non vi sarà facile appropriarvi di un uomo che all’epoca avreste demolito e umiliato quando pagò con il carcere la sua libertà controcorrente nei confronti del Presidente della Repubblica. Allora, quando Giovannino era vivo e vegeto e dalle colonne del Candido sbeffeggiava quel potere di cui ora voi siete comunque gli eredi, lo avreste bollato come nemico del popolo. E non avreste potuto comprenderlo perché per comprendere don Camillo e Peppone bisogna anzitutto essere emiliani o figli di una terra rossa come la Toscana o l’Umbria. Terre in cui i vincitori sono sempre stati i comunisti, ma i vincenti, cioè quelli della parte giusta, sono sempre stati i cattolici. Questo lo sapevano Guareschi, don Camillo, Peppone e persino lo Smilzo. Ma anche la maestra monarchica, perché a tenerli uniti e prossimi non era la pretesa di un’ideologia comune e geneticamente modificata, ma un sentimento di affetto cresciuto nel tempo, nelle frequentazioni comuni, nelle famiglie fianco a fianco.

Nessuno si è mai sognato - men che meno don Camillo e Peppone - di pensare di andare d’accordo rinunciando ad un pezzo della propria identità. Che era forte, ma solo una, e anche Peppone, che battezzava suo figlio di nascosto lo sapeva, era quella vincente: era quella di chi cantava Noi vogliamo Dio, nonostante per Bandiera rossa provasse un affetto tra il patetico e il compassionevole. Lo sa chi ha percorso i “fossi per la lunga”, come si dice qui. Non lo sa chi è nato a Milano e Roma e - dopo aver vagato alla ricerca dell’ideologia migliore sempre sconfitta -, è venuto qui, sulle rive del Grande Fiume ad appropriarsi un mondo piccolo che non potrà mai essere il suo.