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PENSIERO DEBOLE

Contro l'alt di Rodotà alla libertà di coscienza

L'autorevole giurista, già favorevole
a depenalizzare l'eutanasia, invoca l'abolizione dell'obiezione di coscienza sull'aborto in quanto vecchiume...

Attualità 22_12_2011
Stefano Rodotà

 

Come nel celebre racconto di Stephen King, a volte ritornano e ancora una volta si torna ad attaccare l’obiezione di coscienza dei medici all’aborto.

La casistica è arricchita dalla più recente esternazione del professor Stefano Rodotà, comparsa sul quotidiano la Repubblica e ripresa integralmente dal sito della rivista MicroMega. Il titolo dell’intervista - Legge 194, Rodotà: “Aboliamo l’obiezione” - esprime chiaramente l’aspirazione dell’illustre giurista.  Secondo il professore emerito di Diritto Civile, già presidente del partito Democratico della Sinistra e socio onorario di un’associazione per la depenalizzazione dell'eutanasia, l’obiezione di coscienza era giustificata nel 1978, quando la legge 194 entrò in vigore, perché allora i ginecologi avevano scelto quella specializzazione quando l’aborto costituiva un reato ed era comprensibile che alcuni opponessero ragioni di coscienza, ma oggi, dice, «il ginecologo sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, che rientra nei suoi obblighi professionali e non è più ragionevole prevedere una clausola per sottrarvisi». La posizione in effetti non è nuova, Rodotà da molti anni l’ha ripetutamente formulata in contesti diversi  ed è condivisa da una significativa parte del mondo abortista.

Con forse un certo difetto di fantasia Paolo Flores D’Arcais esprimeva lo stesso concetto quando nel 2007 invocava l’abolizione del diritto ad appellarsi alla propria coscienza se essa era formata alla luce di quella che definiva «la morale sessuofobica di Santa Romana Chiesa». E perché rifiutarsi di effettuare gli aborti non dovrebbe più essere consentito? Lo spiega nell’intervista lo stesso Rodotà: «In questione infatti non c’è solo il diritto all’interruzione di gravidanza, ma il diritto alla salute della donna, che è un diritto fondamentale della persona e che non è mera assenza di malattia, ma benessere fisico, psichico e sociale. Se una donna che ha deciso di interrompere la gravidanza vive questa scelta in condizioni di malessere e di angoscia perché non sa se, quando e in che condizioni riuscirà a interromperla, c’è una evidente violazione del suo diritto alla salute, che è un diritto fondamentale della persona che non può essere subordinato a esigenze burocratiche o a mancanza di personale».

Si deve ammettere che il ragionamento del professore si presenta con una certa coerenza interna, ma ad un’analisi appena più attenta sono convinto che l’argomentazione del giurista potrebbe essere usata come esempio didattico di quella bioetica tecnicamente definita non cognitivista, ma che con un pizzico d’impertinenza si potrebbe indicare anche come bioetica onirica, deconnessa dalla realtà al pari dei sogni. Vediamone le ragioni. Il primo problema è che i ginecologi obiettori non costituiscono un ostacolo all’accesso all’aborto. Non è l’opinione di un antiaborista, ma di un personaggio insospettabile di simpatie pro-life come il ginecologo radicale Silvio Viale: «negli ospedali italiani i non obiettori sono il 30% e sono sufficienti».

Se poi il professor Rodotà non si fidasse neppure di Viale, non avrebbe che da commissionare una banalissima analisi ecologica per accorgersi che le donne che abortiscono dopo almeno 21 giorni dalla certificazione, parametro usato come indicatore di inefficienza dei servizi, non sono in numero maggiore nelle regioni dove i ginecologi obiettori sono più numerosi; questo anche includendo nell’analisi il tasso di abortività, cioè il carico di lavoro per i ginecologi che praticano gli aborti. Si tratta di numeri, non di opinioni. Assodato che i ginecologi che esercitano il diritto di obiezione di coscienza non limitano l’accesso all’aborto, il ragionamento del professor Rodotà è ulteriormente fallace quando sembra ignorare che l’aborto non coinvolge solamente il ginecologo, ma anche altre figure professionali, tra queste l’anestesista, il personale infermieristico, talora il medico di medicina generale.

Quando hanno scelto la professione, tutti costoro avevano messo nel conto di dovere concorrere all’aborto? Un anestesista-rianimatore sceglie quella specializzazione tenendo conto che tra gli obblighi della professione vi è l’assistenza all’aborto? L’infermiere che viene spostato nel reparto di ginecologia avrebbe dovuto mettere nel conto anche il dovere di preparare la donna all’intervento o passare i ferri del mestiere al medico? Chiarificato dunque che secondo la logica del professor Rodotà l’obiezione di coscienza non dovrebbe essere preclusa ai soli ginecologi, ma a tutti i medici, e l’iscrizione a medicina impedita ad ogni studente contrario all’aborto, veniamo alla presunta connessione tra aborto e salute.

Cominciamo col dire che la definizione di salute utilizzata dal professore è quella nota adottata nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o d’infermità). Ora, si rimane perplessi di fronte a tale incondizionata adesione ad una definizione di salute, termine peraltro oggetto di vasto confronto,  ampiamente criticata nell’ambito della letteratura scientifica. A un convegno tenutosi qualche giorno fa il giurista Pietro Dubolino ha espresso la condivisibile considerazione che la definizione di salute fornita dall’OMS più che la salute sembra indicare la felicità; da qui deriverebbe un diritto costituzionale persino più ampio di quello previsto nella Dichiarazione d'indipendenza statunitense, dove ci si limita a sancire il diritto al semplice “perseguimento (concreto) della felicità” da parte di ognuno.

In un certo senso lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale assomiglia terribilmente all’atarassia del mondo greco e se qualsiasi turbamento dello stato di completo benessere è un attentato alla salute, allora il diritto alla salute può essere declinato come diritto al Nirvana. Seguendo questa logica gli operatori della salute potrebbero includere un numero potenzialmente molto ampio di figure, dagli addetti all’alimentazione e ristorazione, al coiffeur, dal tatuatore al venditore di materassi, persino escort e gigolò potrebbero avanzare pretese di appartenenza alla categoria e per converso l’insegnante ed il genitore potrebbero configurarsi come vere e proprie minacce alla salute del minore ogni volta che adempiono al loro dovere educativo. Ma senza dovere ricorrere a simili paradossi, il professore Rodotà è davvero convinto che noi medici curiamo le persone pensando di mantenere o ripristinare uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale?

Come scriveva nel 1986 Raan Gillon, direttore del servizio alla salute e dell’Istituto di Etica Medica dell’Imperial College, secondo la definizione di salute dell’OMS “nessuno di noi è, è mai stato, o è mai probabile che sarà sano; essa non lascia molto spazio ai medici per ripristinare o mantenere la salute dei loro pazienti poiché nessuno di loro l’ha mai avuta da ripristinare o preservare”.  Quando una paziente giunge in ambulatorio lamentando un banale mal di schiena e si duole col medico per un figlio bocciato a scuola o del marito che ha perso il lavoro, tutte cose che turbano lo stato di completo benessere, crede forse il professor Rodotà che questa paziente chieda al medico le ripetizioni al figlio o l’assunzione del marito? No, forse condividerà le proprie pene col medico in quanto persona, capace cioè di empatia e solidarietà umana, ma la richiesta che rivolgerà al medico sarà di lenirle il dolore alla schiena.

Per non incorrere nell’errore di fare lievitare la salute fino alla deformazione stessa del concetto e al suo stravolgimento, può forse essere utile ricordare la radice etimologica della parola che, in italiano così come in inglese, rimanda al concetto di integrità, di interezza. Allora risulta più evidente come l’aborto violi un’integrità che è della madre tanto quanto del bambino che ha in sé. Certo, è ben noto il tentativo di includere l’aborto tra gli strumenti volti ad assicurare la cosiddetta salute riproduttiva, ma il rifiuto della suddetta definizione di salute e di operare secondo i suoi dettami rende evidente l’inconciliabilità delle pretese del professor Rodotà con il concetto stesso di professione abbracciato da migliaia di medici, infermieri, farmacisti e biologi.

Veniamo così all’ultimo aspetto della questione. Il professor Rodotà parla di “evidente violazione del diritto alla salute”, ma chi gli ha detto che abortire fa stare meglio le donne? Dove lo ha letto? Quali evidenze scientifiche lo hanno persuaso che le cose stanno così? La più recente revisione della letteratura basata sulla metanalisi dei dati è stata pubblicata a settembre sull’organo ufficiale degli psichiatri inglesi e dice che abortire fa male alla salute mentale delle donne. I dati sono confermati dal professor Fergusson, non credente e senza alcuna sensibilità pro-life, che nega l’esistenza di una qualsivoglia base scientifica alla pretesa avanzata in molte legislazioni, compresa quella italiana, di tutelare la salute mentale delle donne mediante l’aborto, rilevando piuttosto che mediante il ricorso ad esso si possa aggiungere danno al danno: «I nostri risultati [scrive Fergusson] suggeriscono che i rischi per la salute mentale derivanti dall’avere effettuato un aborto possono essere maggiori, e certamente non sono inferiori, dei rischi derivanti dal portare a termine una gravidanza indesiderata».

Anche una fonte che da decenni ha fatto del diritto all’aborto una bandiera, l’associazione americana degli psicologi, non ha potuto portare alcun dato a sostegno che abortire faccia stare meglio le donne.  Lo stesso Royal College of Psychiatrists si è espresso pochi mesi fa ammettendo che l’aborto non porta alcun beneficio e che una percentuale delle donne possa persino avere reazioni psichiche negative derivanti da esso. Ecco che quindi quello che per Rodotà è uno strumento di tutela del diritto alla salute, peraltro intesa nei termini più evanescenti, regge solo postulando tutta una serie di elementi inesistenti. Pertanto per chi scrive risulta sorprendente e paradossale che il colto giurista di etnia arbëreshë a pagina 312 del suo Trattato di Biodiritto, per quanto attiene l’obiezione di coscienza, rimandi alla lettura di un testo del filosofo del diritto Pierluigi Chiassoni, ordinario a Genova, in cui si perora non solo il diritto all’obiezione di coscienza negativa, cioè a non fare ciò che è comandato dalla legge, ma persino quella positiva, cioè a fare quello che è proibito da una norma positiva.

In quel contributo si difende il diritto all’obiezione di coscienza nella variante libertaria, quella per cui «puoi darti le norme morali che riterrai di darti, sotto la tua personale responsabilità, e puoi seguirle, a condizione che ciò non comprometta l’eguale autonomia morale degli altri individui».  L’opposizione al diritto di obiezione di coscienza all’aborto realizza proprio questo, compromette l’autonomia morale dell’obiettore. Ed è lo stesso professor Chiassoni a trarre le conclusioni di una simile pretesa: «La libertà di coscienza libertaria non è il capriccio di un circolo di intellettuali egotisti e blasés. La libertà di coscienza libertaria è il bene fondamentale di una società moralmente decente. Coloro che avversano la libertà di coscienza libertaria sono responsabili di un grave illecito morale e, sul piano giuridico, negli stati costituzionali, di (ciò che a una considerazione realistica, e con le cautele del caso, può considerarsi un) attentato alla costituzione».
E allora, sottoposte al fuoco della realtà, che cosa rimane di quelle parole di Rodotà? Il suono.

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