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EGITTO

Copti uccisi nel Sinai Nuova strategia Isis

Sei cristiani uccisi in venti giorni nella città di al Arish, a poca distanza da Gaza e Israele. L'accanimento contro i cristiani registra un salto di qualità degli uomini del califfato, che vogliono liberare la regione dai cristiani ma senza dare troppo nell'occhio. E il tutto avviene nel silenzio generale.

Esteri 23_02_2017
Miliziani Isis

Dista appena cinquanta chilometri da Gaza la città di al Arish. Un insediamento beduino antichissimo del nord del Sinai, sulla direttrice che - secondo la tradizione copta - la stessa Sacra Famiglia avrebbe percorso durante la fuga in Egitto. Oggi, però, proprio su quella strada sembra accanirsi la persecuzione contro i cristiani, con una terribile scia di sangue che proprio in al Arish ha il suo epicentro. In poco più di venti giorni sono infatti ben sei i cristiani uccisi in agguati che senza alcun dubbio sono da attribuire all'Isis. Anche perché è stato lo stesso Wilayat Sinai - la «filiale» egiziana del sedicente califfato - a dirlo apertamente in un video della durata di venti minuti diffuso sui propri canali domenica scorsa: «I cristiani sono delle prede - ha tuonato la loro propaganda - combattete tutti gli idolatri».

Così ieri alle quattro vittime già contate dal 30 gennaio scorso se ne sono aggiunte altre due: Hakim, un uomo di 65 anni, e suo figlio Medhat, 45 anni. Il primo ucciso a colpi d'arma da fuoco, il secondo addirittura arso vivo. I loro cadaveri li hanno fatti ritrovare dietro una scuola superiore della città. Prima di loro era toccato ad altri laici cristiani, colpiti in pieno giorno. Per esempio il commerciante Wael Youssef, 35 anni: tre uomini mascherati sono andati a ucciderlo nel suo negozio di generi alimentari, davanti alla moglie e a un figlio. E in segno di scherno e di assoluta sicurezza della propria impunità, i killer si sono fermati a bere una bibita e a mangiare patatine in quel negozio, con l'uomo ancora agonizzante a terra.

Non è nuova alle violenze contro i cristiani al Arish. Già nel luglio 2013 fu teatro di episodi gravissimi nei giorni terribili dei pogrom contro i copti durante il colpo di mano dell'esercito che portò alla deposizione del presidente islamista Mohamed Morsi. Ed è da allora che il Sinai - crocevia di traffici e armi - non è mai stato riportato davvero sotto controllo dall'esercito egiziano. Lo stesso monastero di Santa Caterina - più a sud, fino a pochi anni fa meta dei pellegrini sulle orme di Mosé - è ormai da tempo inaccessibile per ragioni di sicurezza. Il 30 giugno scorso, poi, nell'anniversario della deposizione di Morsi, proprio ad al Arish era stato colpito a morte padre Rafael Moussa, il secondo sacerdote martire della violenza islamista in questa città.

Sei uccisioni in venti giorni - però – non si erano mai viste e hanno tutta l'aria di essere un tragico salto di qualità. Si tratta di un accanimento contro i cristiani molto meno visibile rispetto a una strage come quella compiuta l'11 dicembre nella chiesa di San Pietro e Paolo al Cairo. Ma non è certo meno devastante nel seminare la paura tra i copti. Chi può in queste ore se ne sta andando, esattamente come successo a Mosul o a Raqqa; vanno verso l'Alto Egitto o il Cairo, sperando che almeno lì l'esercito di al Sisi sia in grado di proteggerli. Chi invece resta lo fa con la consapevolezza che non è finita e chiedendosi drammaticamente chi sarà il prossimo a essere colpito.

Eppure nella loro diabolica precisione i jihadisti dell'Isis anche questa volta hanno scelto l'obiettivo giusto. Perché semplici cristiani uccisi poco alla volta faticano ad andare oltre poche righe di notizia sui media internazionali. Anche perché a volere che non si parli troppo di questa storia sono in tanti. L'avrete notato: il Sinai è il posto dove della presenza dell'Isis si parla meno. Eppure già nel 2014 i gruppi jihadisti locali - cresciuti all'ombra dei traffici di armi migranti - furono tra i primi a giurare pubblicamente fedeltà al califfato appena proclamato da al Baghdadi a Mosul. E da allora continuano a combattere una guerra che l'esercito egiziano non sembra proprio in grado di vincere.

Non stupisce, dunque, che il Cairo non abbia alcuna intenzione di parlare dei copti uccisi dall'Isis. Ma anche Israele preferisce far finta di nulla, nonostante tutto questo succeda a due passi dai suoi confini; persino quando - appena pochi giorni fa - dal Sinai sono partiti razzi diretti verso Eilat, fermati solo dalle batterie antimissile dell'Iron Dome, alla vicenda è stato messo il silenziatore. Netanyahu non ne parla per non distrarre l'attenzione dall'Iran, l'unico suo vero nemico (e contro cui - secondo qualche Dottor Stranamore a Gerusalemme - l'Isis potrebbe «persino fare comodo»). Men che meno, infine, ne parla Washington, oggi impegnatissima a rinsaldare i rapporti con le potenze sunnite che - a loro volta - mirano a ritornare in gioco in Siria piantando la loro bandierina sulla «battaglia finale contro l'Isis» a Raqqa.

Così l'esercito dalla bandiera nera continua a crescere nel Sinai promettendo rivincite agli sconfitti di al Sisi. Mentre i cristiani di al Arish muoiono, uno dopo l'altro.