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TRUMP E KIM

Corea del Nord, la speranza di una distensione vera

Kim Jong-un e Moon Jae-in si sono incontrati lo scorso 26 maggio. E’ il secondo incontro fra i due leader, fra il dittatore nordcoreano e il presidente sudcoreano. Può essere la premessa del vertice fra Usa e Corea del Nord. Quanto è reale la possibilità di un disgelo vero?

Esteri 29_05_2018
Manifestazione pacifista in Corea del Sud

Kim Jong-un e Moon Jae-in si sono incontrati lo scorso 26 maggio. E’ il secondo incontro fra i due leader, fra il dittatore nordcoreano e il presidente sudcoreano. Ieri è stata resa pubblica la conversazione fra i due e Kim promette di proseguire nel suo intento di denuclearizzare la penisola coreana. L’incontro è avvenuto di sorpresa. Non era stato preannunciato. E coincide con la fine della nuova tensione fra Kim e l’amministrazione Trump, culminata con la lettera del presidente americano che, con toni duri, ironici e minacciosi, annullava lo storico summit previsto a Singapore. Ora la scena è cambiata di nuovo: l’incontro Usa-Corea del Nord potrebbe esserci realmente e il vertice a sorpresa inter-coreano ne è la premessa necessaria. Insomma, più Trump tratta male Kim, più quest’ultimo si rabbonisce? Di sicuro la crisi e la distensione attuali stanno procedendo in base a dinamiche atipiche. E quindi è lecito essere ottimisti.

Normalmente le crisi coreane seguivano uno schema fisso, dai tempi di Kim Jong-il (padre dell’attuale dittatore), dunque dagli anni 90. C’è una prima fase in cui la Corea del Nord costruisce nuove armi, le testa sul campo e lancia minacce gravi, facendo temere una guerra atomica. In una seconda fase, la Corea del Nord accetta il negoziato, promettendo di sospendere i suoi test in cambio di aiuti alimentari ed economici. In una terza fase, viene dichiarato (oppure viene scoperto da terzi) un nuovo programma militare e la Corea del Nord ricomincia dalla fase uno. L’aumento della tensione serve ad aumentare il ricatto sui paesi che hanno la possibilità di aiutare i nordcoreani, un regime comunista ormai perennemente in crisi e senza via d’uscita. La seconda fase, invece, serve a prendere tempo. Oggi ci sono sviluppi che spezzano questo circolo vizioso.

Non ci si deve far ingannare troppo dal segnale più visibile: la distruzione del poligono in cui sono state testate le armi atomiche nordcoreane. Anche nell’accordo raggiunto (e poi violato) dieci anni fa con George Bush, il reattore di Yongbyon, simbolo del programma nucleare era stato distrutto alla presenza di giornalisti di tutto il mondo. Ma appena quattro anni dopo il programma era tornato in auge con nuovi test. Yongbyon, si apprese in seguito, semplicemente non serviva più. La sua distruzione, data in pasto alle telecamere, era un diversivo. La stessa cosa si potrebbe dire anche per la distruzione, con cariche di demolizione in diretta TV, del sito nucleare di Punggye-ri, quello dei test sotterranei che hanno fatto tremare la terra (e il mondo).

Questa è la prima volta che un dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un, partecipa direttamente e personalmente ai negoziati. E’ anche la prima volta che chiede e ottiene di parlare faccia a faccia con un presidente americano. Questo non era mai successo in passato. Se fosse sincero l’intento di Kim, apparirebbero anche sotto un’altra luce le numerose epurazioni (ed esecuzioni e omicidi all’estero) di tutti i suoi presunti e reali rivali, incluso lo zio-tutore e il fratellastro Kim Jong-nam, primo erede designato, poi espulso. Finché proseguivano i test missilistici e nucleari, pareva il preludio di un’apocalisse: prima si distruggono i parenti, poi il mondo intero. Adesso potrebbe darsi, invece, che fossero loro, uomini del vecchio regime, a costituire almeno potenziali ostacoli a un percorso di appeasement? Nelle dittature totalitarie, spesso, i più fanatici si rivelano successivamente quelli più moderati, una volta che hanno consolidato il potere, come Beria, che voleva amnistie e distensione dopo la morte di Stalin (finché non fu giustiziato a sua volta).

Un secondo cambiamento, meno visibile ma ben presente, è l’atteggiamento della Cina. L’unico grande partner, che sostiene di peso il regime nordcoreano (perché funziona come uno Stato cuscinetto da interporre fra sé e le basi americane in Corea del Sud e Giappone) ha accettato di votare per le sanzioni, dopo gli ultimi e più pericolosi test missilistici. Tutte le mosse distensive di Kim sono state precedute da viaggi in Cina. Non sappiamo ancora adesso i contenuti delle conversazioni fra il dittatore nordcoreano e il suo grande protettore Xi Jinping. Ma è abbastanza evidente che quest’ultimo, con le buone o con le cattive, lo ha convinto a cambiare strada.

Un terzo fattore completamente nuovo è la politica estera di Trump, ispirata, a metà, al motto (che fu del presidente Theodore Roosevelt): “Parla piano e agita un grosso bastone”. A metà: perché nel caso di Trump, le parole sono state più che urlate. Ma il bastone, comunque, è stato agitato ed era molto grosso: bombardieri strategici, esercitazioni a ridosso dello spazio aereo nordcoreano, tre portaerei affluite nell’area, sottomarini nucleari nel Mar del Giappone. Non si sa quanto reale fosse la possibilità di guerra, in caso di passo falso da parte della Corea del Nord. Ma nell’incertezza, anche ai vertici di Pyongyang, l’effetto deterrente c’è stato. Il fatto che Trump non abbia concesso nulla a Kim, nemmeno in vista del vertice di Singapore, e sia stato quest’ultimo a venire a più miti consigli, è molto indicativo. La Corea del Nord avrebbe tutto da perdere se rifiutasse l’offerta.