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2 NOVEMBRE

Culto dei morti, non cultura della morte

Culto dei morti e cultura della morte. C’è una bella differenza. La commemorazione dei defunti è illuminata dai Santi celebrati il giorno prima. La morte è il nemico vinto, oggi invece prevale la cultura "amica" della morte.

Editoriali 02_11_2017

Culto dei morti e cultura della morte. C’è una bella differenza. Il culto cristiano dei morti trova due date significative sul calendario: la Festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti. Nel primo caso la morte si declina come vittoria sulla morte stessa, intesa come morte eterna. Volendo essere un po’ prosaici, potremmo dire che i Santi sono quelli che ce l’hanno fatta. La commemorazione dei defunti vive della luce che proviene dalla festività precedente: si prega perché anche loro possano far parte della squadra dei vincenti.

Ma il 2 novembre ci ricorda non solo il destino eterno di chi non c’è più, ma anche il nostro. Loro erano ciò che noi siamo e sono ciò che saremo. Il pensiero, almeno quello del cristiano autentico, corre allora al giudizio che segnerà un punto di non ritorno. L’uomo postmoderno ovviamente stenta a credere che esista un Dio giudice e ancor meno che quel giudizio possa essere di condanna definitiva. Ha l’allergia di ciò che è definitivo perché è un aggettivo che rimanda al verbo “definire”, cioè individuare, marcare i confini, segnare un perimetro e quindi identificare. No, l’uomo del Terzo millennio è fatto per la liquidità esistenziale, l’informale, l’incessante transeunte, l’indefinito ad libitum. Figurarsi a dire che dall’Inferno è impossibile tornare perché è una pena definitiva.

Giovanni Paolo II nella Lettera agli anziani scrisse che “il tramonto dell’esistenza assume i contorni di un ponte gettato dalla vita alla vita”. Un ponte sotto cui scorre il fiume nero della morte. La tradizione cristiana quindi coglie l’occasione delle riflessione sulla morte per ricordare che quel fiume può essere scavalcato grazie ad un’altra morte, la morte più eccellente che ci sia mai stata: quella di Cristo in croce. Lui è il ponte, lui ha vinto con la resurrezione non solo la morte fisica ma anche la seconda morte, la dannazione eterna.

Il primo e il due di novembre sono insieme un monito a non morire per sempre e un invito a vivere per sempre. Un ruvido memento mori che apre alla speranza. Certo, siamo ben consapevoli che queste riflessioni sono troppo muscolari per il cristianesimo odierno così marcatamente effeminato. Ma si tratta solo di realismo.

Dicevamo, culto dei morti e cultura della morte. Se Cristo ha vinto la morte significa che questa è nemica dell’uomo. Eppure da sempre c’è chi è diventato suo amico, l’ha abbracciata con passione. E dal culto dei morti siamo passati al culto della morte. Gli esempi sono noti: aborto, eutanasia, fecondazione artificiale  in cui si dà la vita ad alcuni dando la morte a molti altri, sperimentazioni sugli embrioni, divorzio che è la morte della famiglie, omosessualità che è la morte dell’identità del maschio e della femmina. E’ un culto che viene celebrato tutto l’anno e i suoi ministri non sono solo medici, parlamentari e giudici, ma siamo tutti noi.

E’ infatti un culto che nasce prima di tutto nel cuore di ogni uomo quando decide di non morire più a se stesso. "Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto" (Gv 12, 24). Come non pensare a quanti non vogliono far morire il proprio egoismo e dunque divorziano: e rimangono soli senza più amore. A quante non vogliono far morire paure ed ansie e decidono di abortire: e rimangono sole senza più il loro bambino. A quanti non vogliono far morire le proprie pulsioni e intrecciano relazioni omosessuali: e rimangono soli in compagnia unicamente del proprio disagio. Chi cerca disperatamente se stesso, non si trova.

E’ come tentare di stringere in un pugno della sabbia: scapperà da ogni parte. Se il palmo rimarrà ben disteso invece non si perderà nemmeno un granello di sabbia. Chi muore a se stesso produce frutto: famiglie stabili, figli, pace interiore, autentiche relazioni amicali. Chi muore a se stesso non solo vive appieno, ma si prepara nei migliori dei modi a sfuggire alla seconda morte. Chi invece incardina la propria esistenza sul “Io valgo” morirà per davvero, appassirà dentro. Sarà morto anzitempo. Come non pensare a quanti giovani, giovanissimi e addirittura adolescenti che non hanno più nemmeno la forza di desiderare, di sognare e quindi di lottare. Spenti, annoiati, incolori e dunque assetati di emozioni forti che come un defibrillatore possano dare al loro cuore inerte una scarica vitale, sono già zombi, gli stessi, ma senza trucco, che abbiamo visto in giro nella notte di Halloween.

Da qui nasce la radice autentica della cultura della morte, dall’abbandono di vivere la vita nella sua pienezza che, volenti o nolenti, ha la forma di una croce. Quella stessa che come un sigillo è posta sopra le lapidi dei nostri cari.