Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
DOPO LA SARDEGNA

Destra disunita, perdente anche con una sinistra debole

Ascolta la versione audio dell'articolo

La sconfitta in Sardegna sarà solo un caso isolato? No, se Lega e FdI non trovano un compromesso. Anche una sinistra in piena crisi di identità può vincere.

Editoriali 28_02_2024
Giorgia Meloni, Matteo Salvini (La Presse)

La domanda più ricorrente nei corridoi dei palazzi romani, all’indomani del voto in Sardegna è se si tratta di uno spartiacque nazionale o di un episodio isolato destinato a non lasciare tracce negli equilibri politici. È presto per dirlo. Forse un tassello in più a questo puzzle potrà aggiungerlo la tornata regionale in Abruzzo, in calendario domenica 10 marzo. Se il governatore uscente, Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, dovesse essere riconfermato, tornerebbe a splendere il sereno nei cieli del centrodestra o quanto meno la maggioranza di governo tirerebbe un sospiro di sollievo. Ove invece si registrasse una vittoria del centrosinistra come in Sardegna, le conseguenze per il governo potrebbero essere devastanti.

Dal punto di vista pratico, infatti, nulla cambierebbe, visto che i numeri alla Camera e al Senato consentono alla Meloni e ai suoi alleati di dormire sonni tranquilli. Tuttavia, una seconda sconfitta in 15 giorni potrebbe avviare la resa dei conti nel centrodestra e far esplodere le tensioni che già oggi serpeggiano in modo evidente tra la Lega e Fratelli d’Italia. E l’esecutivo non potrebbe non risentirne.

Dalla Sardegna è infatti arrivato un monito al premier, che ha imposto come candidato alla poltrona di presidente di quella regione Paolo Truzzu, sindaco uscente di Cagliari e suo fedelissimo dai tempi della politica giovanile, per dare uno schiaffo a Matteo Salvini, che invece chiedeva la riconferma del governatore uscente Christian Solinas. I leghisti evidentemente non l’hanno presa bene, ma soprattutto sono stati i sardi a non gradire la candidatura di Truzzu, che ha perso cocentemente anche nella sua città, dove l’avversaria del centrosinistra, la neoeletta governatrice Alessandra Todde, ha raccolto il 20% di voti in più di lui. Segno che il candidato meloniano era sbagliato in quanto non apprezzato neppure dai suoi concittadini, che lo conoscono meglio degli altri.

In molti parlano di vendetta di Matteo Salvini, dopo che il premier si era messo di traverso sul terzo mandato per i presidenti di Regione, sbarrando quindi la strada alla ricandidatura di governatori come Luca Zaia, che l’anno prossimo terminano il secondo mandato. La chiave di lettura è plausibile, visto che la somma dei voti raccolti nelle urne sarde dai partiti di centrodestra è superiore di 4 punti rispetto ai consensi raccolti da Truzzu, al quale sono dunque mancati proprio i voti leghisti. Da via Bellerio sarebbe arrivato l’ordine di scuderia del voto disgiunto: fare la croce sul simbolo della Lega, votando per i candidati consiglieri del Carroccio, ma poi scegliere un altro candidato presidente diverso da Truzzu.

Non ci sono prove tangibili, ovviamente, ma si può senz’altro dire che se le cose fossero effettivamente andate così si tratterebbe di un vero e proprio autogol per la coalizione di governo, che ostenta unità in sede nazionale ma poi si divide sui territori, facendo il gioco della sinistra. Erano circa nove anni che la sinistra non strappava una regione al centrodestra. Elly Schlein a Giuseppe Conte sono corsi in Sardegna con lo stesso aereo per congratularsi con la Todde e intestarsi in qualche modo la sua vittoria, sperando nell’effetto domino in altre regioni. Il cosiddetto “campo largo” - sia ben chiaro - resta un miraggio, visto che Carlo Calenda e Matteo Renzi non ne vogliono sentir parlare e considerata la competizione per la leadership/premiership tra Schlein e Conte. Tuttavia sarebbe un errore madornale per il centrodestra far finta che nulla sia successo e catalogare come fortuito incidente di percorso la batosta sarda. Forse ha ragione Stefano Folli, quando scrive su Repubblica che «per la prima volta Giorgia Meloni ha commesso un errore grave, e proprio sul terreno che in teoria le è più congeniale: la gestione del consenso, la capacità d’interpretare un elettorato che chiede cose semplici e concrete» e quando chiarisce: «Ora è presto per dire che è cominciato il declino meloniano, tuttavia la stagione in cui tutto era visto con indulgenza, persino con una certa soggezione psicologica di fronte alla vincitrice del 2022, è finita».

In altre parole sembra andare in frantumi il mito dell’invincibilità di Giorgia e dei suoi e si insinuano, anche tra gli elettori di centrodestra, i primi dubbi e le prime incertezze sulla reale affidabilità e soprattutto sull’effettiva compattezza della coalizione di governo.

Probabilmente, per evitare la possibile deriva autolesionistica, le forze di centrodestra dovrebbero rinnovare la loro alleanza su basi paritarie, senza che i meloniani pretendano di umiliare i leghisti, soprattutto al nord. La vicenda Zaia è emblematica. Il premier è irremovibile sulla possibilità del terzo mandato per i governatori, proprio perché l’anno prossimo vorrebbe candidare un suo uomo alla guida della Regione Veneto. Ma è davvero la strada migliore per tenere unita la coalizione? Non sarebbe più costruttivo e lungimirante prendere atto che tanti quadri dirigenziali locali non sono all’altezza e provare ad aprirsi alla società civile per trovare candidati unitari che risultino un valore aggiunto rispetto alla somma dei voti dei singoli partiti?