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IDEOLOGIE

Eurss, il retaggio sovietico nell'Unione Europea

Nigel Farage, padre della Brexit, definisce il programma di Ursula von der Leyen una "forma aggiornata di comunismo". Lo attaccano o sfottono i giornalisti inglesi, ma non ha tutti i torti. Bukovsky, ex dissidente sovietico e Klaus, ex presidente ceco, denunciano da tempo il retaggio ideologico sovietico nell'Unione Europea, almeno dai tempi del trattato di Maastricht, firmato all'indomani della caduta del muro di Berlino. E nei paesi dell'Est, vaccinati dal totalitarismo rosso, è più forte la resistenza al dirigismo laicista di Bruxelles.

Politica 04_08_2019
La stella rossa che dominava Budapest (foto di Stefano Magni)

In un intervento al Parlamento europeo chiamato a ratificare o meno la nomina della tedesca Ursula Von der Leyen a Presidente della Commissione europea, il padre della Brexit Nigel Farage l’ha accusata di voler costruire “una forma aggiornata di comunismo centralizzato e anti-democratico”,  dandole della “fanatica” del piano per un esercito europeo che nel giro dei prossimi cinque anni renderebbe irrilevante la Nato, ovvero l’alleanza con gli Usa.

Trascurata dalle testate italiane e fortemente contestata dalla testata più a sinistra della stampa britannica mainstream, il Guardian e la sua edizione domenicale, l’Observer, l’affermazione però merita considerazione visto che Farage in politica estera si è dimostrato tutt’altro che uno sprovveduto. 

Ci sono dei precedenti che autorizzano ad accostare il comunismo all’Unione europea? Uno, lontano nel tempo, ma spesso richiamato come fondamento del progetto europeo, è il Manifesto di Altiero Spinelli, celebrato appena tre anni fa a Ventotene, dall’allora Premier italiano Matteo Renzi con  Angela Merkel e François Hollande.  Il “Manifesto per un'Europa libera e unita” pur criticando il comunismo come “più efficiente che democratico” aveva per finalità ultima la costituzione di un’Europa nella quale la proprietà privata sarebbe stata abolita e si sarebbero attuate nazionalizzazioni delle imprese private “su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti».

Più in specifico, ad avvisarci dell’esistenza di un piano concreto di riconversione dell’Europa unita alla dottrina comunista ci sono le parole dell’ex-dissidente sovietico Vladimir Bukovsky,  il quale dal 1991 avverte, sulla base di documenti, che la caduta del muro di Berlino non fu una resa ma una gattopardesca mossa, pianificata a partire dal 1984, per ottenere la fiducia del mondo libero. L’Occidente, grato, commosso e sollevato per la fine della Guerra Fredda, confidando nella propria vittoria e conclamata superiorità, si è aperto come previsto ad ascoltare e a prendere in carico ogni accusa a sé stesso e alla propria storia, ogni sostituzione dei propri valori tradizionali giudaico-cristiani e liberali con i valori ateo-materialisti e statalisti fino ad allora fieramente avversati.

È così che si spiega come, due anni dopo la caduta del muro, si sia potuto ratificare a Maastricht un Trattato la cui natura coercitiva rappresentava l’esatto contrario dei Trattati di Roma del 1957: ovvero il centralismo burocratico definito nelle minuzie al posto del accordo per un libero mercato in comune. Da allora il concetto di giustizia sociale universalmente citato, giocando con la somiglianza con la dottrina cristiana, gradualmente è diventato quell’”a ciascuno secondo il bisogno” che non fu detto da Gesù ma da Vladimir Illich Lenin, e non a fini filantropici ma per dare allo Stato il diritto di prelevare, confiscare ed espropriare, per darli ad altri, i redditi e le proprietà private. È così che oggi, invece che di lotta alla povertà, i politici di quasi ogni persuasione parlano di lotta alle diseguaglianze, il che gradualmente si traduce nella delegittimazione della ricchezza, sospettata in quanto tale di essere necessariamente frutto di speculazione ed evasione fiscale e non frutto del lavoro, di onesti scambi e di sobrio risparmio.

In questo campo avremmo molto da imparare dai Paesi dell’Est Europa perché, come scrive l’ex-Presidente della repubblica ceca Vaclav Klaus, l’esperienza sotto il regime comunista ha aguzzato loro la vista: “Molti aspetti dell’Unione europea ricordano il totalitarismo comunista nella sua fase finale, senza gulag” scrive Klaus, che da Premier gestì la transizione dalla Cecoslovacchia comunista alla Repubblica ceca indipendente. Questi tratti in comune non sono solo “il trasferimento di potere da rappresentanti eletti alla burocrazia non eletta e la crescita esponenziale del controllo su ogni tipo di attività umana”, che nessuno ha difficoltà a riconoscere come caratteristica dell’Urss, ma molti sono restii a riconoscere nelle strutture dell’Ue, nonostante che alla piramide sovietica siano perfettamente sovrapponibili.

Molto meno noto è il fatto che nell’impero sovietico si erano già verificate l’attacco alla famiglia e “le crociate vittoriose degli “ismi”, dal femminismo al genderismo, dal multculturalismo all’ambientalismo estremista e soprattutto al dirittumanismo” che ha sostituito la libertà e che forma con gli altri “ismi “ il pensiero unico denominato “politicamente corretto”.

Consapevoli dunque di essere stretti fra quello che Angelo Panebianco definisce “il dispotismo asiatico” di Putin e il dispotismo mascherato di Bruxelles, nuova Mosca, le nazioni ex-prigioniere dell’Unione Sovietica, oggi ufficialmente libere, si trovano come noi a dover fare i conti con le politiche soft dell’establishment laicista innervato sia nelle burocrazie sovranazionali sia in molte Ong che ne sono il braccio operativo. A differenza di noi però individuano nelle battaglie culturali di oggi una matrice ideologica già sperimentata.

Qualcuno di noi sa cosa contiene il Trattato di Istanbul? In Italia ne è al corrente una minima frazione di persone, visto che da noi, com’è noto, c’è addirittura un divieto costituzionale di sottoporre i trattati a referendum popolare. Invece in Croazia in questi anni hanno fatto sforzi strenui, manifestazioni e scioperi, contro la firma di questo trattato, perché dietro la facciata della difesa dei diritti delle donne hanno capito che c’è il lancio dell’indottrinamento al gender.

Gran parte degli Stati dell’Est, di fronte ai requisiti di Copenhagen per essere ammessi all’Unione europea, che prevedono il divieto di discriminazione, hanno capito al volo e sono corsi a inserire nelle loro Costituzioni una specifica definizione di matrimonio come unione fra un uomo e una donna (il riferimento è a Polonia, Bielorussia, Croazia, Finlandia, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Serbia, Slovacchia, Ungheria e Ucraina).

Il settimanale francese Famille Chrétienne, ha parlato a questo proposito di «ricatto» europeo, particolarmente agevole quando negli stati è ancora in ballo la possibilità di entrare a far parte dell'Unione europea. Slobodan Despot, scrittore ed editore serbo di cittadinanza svizzera, attribuice la resistenza degli europei dell’Est oltre che al forte sentimento familiare e religioso, anche al ricordo del comunismo, per cui “avendo già fatto esperienza dell'ingegneria sociale, essi sono prevenuti contro il transumanesimo globale e le diverse tabule rase che esso impone sul piano della moralità e delle fedi. Queste innovazioni, imposte senza né maturazione né un vero ancoraggio nel vissuto comune, appaiono come dei test in vista di un condizionamento dei comportamenti.” Addirittura “essi sanno che l'Occidente li giudicherà ben più severamente su questo criterio che su dei parametri classici quali l'indice di corruzione, il benessere in generale, l'equità del sistema giudiziario o la tassa sullo sciopero”.