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SPIANATA DELLE MOSCHEE

Gerusalemme, nessun trionfo per il palestinesi

Doveva essere la giornata del trionfo per i palestinesi, ma a Gerusalemme sono arrivati ancora gli scontri. Una volta messi in circolo e rinfocolati da due settimane di accuse reciproche l’odio e il risentimento sono ben più difficili da riporre in magazzino, anche dopo che è stato rimosso l'oggetto della discordia (i metal detector sulla Spianata delle Moschee).

Esteri 28_07_2017
Musulmani in preghiera a Gerusalemme

Doveva essere la giornata del trionfo per i palestinesi, ma a Gerusalemme sono arrivati ancora gli scontri. Perché dagli ingressi della Spianata - dopo lunghe trattative - si può anche arrivare a rimuovere qualsiasi cosa.

Ma una volta messi in circolo e rinfocolati da due settimane di accuse reciproche l’odio e il risentimento sono ben più difficili da riporre in magazzino. Così, quando per la preghiera del pomeriggio i musulmani ieri sono tornati ad al Aqsa, è bastato un nulla a far ricominciare la battaglia. Che siano state le bandiere palestinesi issate sulla moschea o le solite pietre scagliate contro la polizia o nel piazzale (sottostante) del Muro del Pianto, sta di fatto che le granate lacrimogene e i proiettili di gomma della polizia sono ricominciati, ancora con decine di feriti. Nuove tensioni si temono anche oggi, quando il Waqf - l’autorità islamica che governa le moschee - ha chiamato a raccolta i musulmani di Gerusalemme; anche questa volta, come sette giorni fa, chiudendo le moschee per avere più folla possibile alla preghiera di mezzogiorno.

Del resto non sembra vero ai palestinesi di avere una vittoria da celebrare a Gerusalemme: alla fine l’altra notte, dopo i contestati metal detector, sono sparite anche le telecamere e persino gli archetti metallici che la polizia israeliana aveva installato come nuova misura di sicurezza dopo l’attacco del 14 luglio. Il governo Netanyahu  ha dovuto cedere su tutta la linea. Il premier israeliano ha provato a spacciare l’accordo mediato da Washington con il re di Giordania come una sua vittoria, celebrando come un eroe al suo ritorno a Gerusalemme l’agente della sicurezza che ad Amman per legittima difesa aveva ucciso due giordani, uno dei quali in realtà del tutto estraneo a un aggressione nel suo appartamento. Gli israeliani non l’hanno bevuta: persino il fedelissimo quotidiano Israel Hayom, che l’ha sempre sostenuto, ha criticato Netanyahu per la gestione della crisi. In più nei patti non doveva esserci la canonizzazione dell’agente. Per cui adesso la Giordania dice che non intende far rientrare ad Amman il personale diplomatico israeliano, finché la vicenda della sparatoria non sarà chiarita fino in fondo.

Dunque - anche ammesso che le tensioni di ieri pomeriggio alla Spianata siano sono l’ultimo fuoco di coda della crisi - queste due settimane lasceranno comunque in eredità parecchie tossine da smaltire a Gerusalemme. In Israele c’è soprattutto la rabbia dei coloni da gestire. Già due giorni fa, quando i metal detector erano stati rimossi, avevano pensato bene di tornare a occupare per ritorsione la Machpela House, un edificio che a Hebron sta davanti alla Tomba dei patriarchi, l’altra polveriera per eccellenza tra ebrei e musulmani. Quindici famiglie sono asserragliate lì dentro e finora l’esercito non le ha sgomberate, limitandosi ad isolare la zona. Perché il problema è che questa rabbia ora viene cavalcata da Neftali Bennet, l’ambizioso leader del partito dell’estrema destra, che sarebbe un alleato di governo di Netanyahu. Bennet - che è ministro dell’educazione - ieri ha paragonato la rimozione dei metal detector al ritiro dei soldati israeliani dal Libano nel 2000, che detto da un esponente della destra israeliana non è esattamente un complimento. E per provare a tamponare la falla in quest’area politica Netanyahu prova a rincorrerlo sul suo terreno: ieri è arrivato addirittura a invocare la pena di morte per il palestinese che una settimana fa ha compiuto la strage nell’insediamento di Halamish, sgozzando tre persone nella cucina di casa.

Anche dall’altra parte della barricata, però, la corsa a intestarsi la vittoria nella battaglia dei metal detector è più complessa di quanto sembri. Perché Abu Mazen e le altre fazioni palestinesi possono esultare solo fino a un certo punto. La vera leadership che questo confronto ha portato alla ribalta non sta infatti né a Ramallah né a Gaza, ma a Gerusalemme est. Ed è una leadership molto più religiosa che politica; proprio per questo è riuscita a costruire intorno ad al Aqsa un’unità palestinese impensabile fino a qualche giorno fa. I più patetici ora appaiono i leader del mondo arabo che ieri - dopo quindici giorni - hanno tenuto la «riunione d’urgenza» della Lega Araba sulla crisi di Gerusalemme. E il re saudita Salman che prova disperatamente a far credere che abbia avuto un ruolo anche lui nella soluzione della crisi; ma senza che tra i palestinesi ci creda proprio nessuno.

Quella sulla Spianata è una soluzione che lascia in eredità forti scosse telluriche tanto nel governo israeliano quanto tra gli arabi. Con la sensazione che in troppi stiano già pensando alla prossima rivincita.