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TERRORISMO

I fattori scatenanti del jihad in Belgio

Che cosa spinge un giovane nato e cresciuto in Belgio a diventare un jihadista? La domanda diventa urgente dopo gli attentati all'aeroporto e alla metropolitana nella capitale d'Europa. I fattori scatenanti sono un'overdose religiosa, ma anche disagio, disoccupazione, ghettizzazione e schizofrenia identitaria.

Esteri 23_03_2016
Check point della polizia a Molenbeek

La gioia e il sollievo provati a seguito della cattura di Salah Abdeslam, nel quartiere di Molenbeek a Bruxelles, sono scomparsi alla notizia del triplice attentato che ha colpito la capitale belga ieri mattina. Prima l’aeroporto internazionale di Zaventem, poi la stazione della metropolitana vicina alle istituzioni europee. Una conseguenza della cattura di Abdeslam?

Ebbene, gli attentati del 22 marzo non appaiono essere una diretta conseguenza della cattura di Salah Abdeslam, ma piuttosto una accelerazione di un progetto già pianificato per timore che potessero essere rivelati nel corso degli interrogatori dettagli circa persone e strategie future del Califfato. Ciononostante il quartiere di Molenbeek, in particolare, e Bruxelles e il Belgio, in generale, si confermano luoghi chiave, “safe havens”, crocevia del terrorismo di matrice islamica sia di esportazione verso il Califfato e sia di importazione dal Califfato verso l’Europa. 

Un altro dato di fatto è che oggi il Belgio sta all’Europa, come la Tunisia sta al Nord Africa per l’elevata percentuale di foreign fighters. Belgio e Tunisia condividono altresì le piccole dimensioni e il fatto di essere state luoghi di passaggio delle reti jihadiste – tra Algeria e Libia nel sud della Tunisia, tra Francia, Germania e resto d’Europa nel caso del Belgio - e di assistere a una crescita dei fenomeni sia di ritorno sia di azioni all’interno. In Belgio e in Tunisia si assiste a un fenomeno di reazione nei confronti del contesto circostante che viene di conseguenza preso di mira con attentati. 

L’intellettuale saudita Turki al-Hamad ha di recente dichiarato che la deriva jihadista che si assiste in alcuni giovani musulmani è dovuta a una “overdose di religione” che servirebbe da terreno fertile per una conversione al jihadismo. Se si riportasse questa affermazione per spiegare l’accaduto in Francia, nei mesi scorsi, e in Belgio oggi e persino alla situazione tunisina, si otterrebbe comunque una spiegazione parziale. La motivazione che spinge un giovane ad “arruolarsi” nei ranghi del Califfato, o di una qualsiasi altra realtà jihadista, va meglio individuata nella sovrapposizione di diversi strati di detonatori di una schizofrenia identitaria che viene poi racchiusa dal contenitore di matrice religiosa che offre l’imprimatur alla perdita della vita propria e altrui in nome di una causa suprema, meglio della giustizia suprema. 

Il caso belga di Molenbeek, il caso francese delle banlieues, così come quello del sud tunisino dimostrano, seppur con sfumature diverse, che il disagio sociale, la disoccupazione, la ghettizzazione, il sentirsi vittime di una società che ha tradito - perché ingiusta oppure troppo laica  oppure ostile ai musulmani, agli immigrati, ai non autoctoni a seconda dei casi – sono elementi scatenanti che possono spingere a una reazione estrema e all’affiliazione all’ideologia forte, vincente ed appagante dal punto di vista psicologico del jihadismo. 

La Francia è senza dubbio il paese preso più di mira dal Califfato per via del passato coloniale, per via dell’estrema laicità che viene letta come una forma di islamofobia, per via della presenza di ghetti fisici e mentali che riguardano la popolazione, ormai francese, di religione islamica. Il Belgio è diventato negli ultimi anni un’appendice della realtà francese sia nell’asse strategica e nella contiguità tra Parigi e Bruxelles, sia nella somiglianza a livello sociale della gestione della presenza islamica che vede la popolazione islamica belga appartenere alle fasce medio-basse della società e agire in un contesto parziale di ghettizzazione a pochi chilometri di distanza dalle istituzioni europee che sono percepite come simboli di potere occidentale. Siffatta situazione non solo accentua la radicalizzazione della gioventù, ma può addirittura assicurare la connivenza e l’omertà della comunità di appartenenza a prescindere dall’adesione all’ideologia jihadista, come è avvenuto con molta probabilità nel caso di Abdeslam a Molenbeek che lo ha “custodito” per qualche mese.

La sfida odierna dovrebbe consistere nell’evitare da un lato la sovrapposizione dei già citati detonatori identitari e dall’altro l’overdose di religione dei giovani musulmani residenti e nati nel nostro paese. Poiché l’Italia sta vivendo la seconda generazione e non è ancora entrata nella fase critica della terza generazione, poiché non ha né il prepotente passato coloniale né il mito della laicità della Francia, l’Italia è fisiologicamente immune da alcuni detonatori. L’azione sul terreno dovrebbe quindi focalizzarsi sulle nuove generazioni e sul loro coinvolgimento a livello sociale nel tentativo di fare prevalere nella loro identità l’appartenenza al contesto italiano in quanto cittadini di fede musulmana, e nel fare emergere la pluralità dell’elemento islamico.

Le tragedie che hanno visto protagonisti Belgio e Francia dovrebbero infine farci riflettere e avviare una seria e responsabile riflessione sui modelli di integrazione visibilmente e tragicamente falliti in Occidente, prima che anche il nostro paese intraprenda inesorabilmente una via senza più ritorno.