Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
CHIESA E POLITICA

I martiri cinesi ci giudicano

Oggi la Chiesa ricorda i 120 martiri cinesi, vescovi, preti, suore, laici: una storia scomoda per chi oggi ha ribaltato i valori in campo e indica come modello il compromesso anziché il martirio. E quanto accade nel rapporto tra Santa Sede e Cina riguarda ognuno di noi.

Editoriali 09_07_2020 English Español

La celebrazione liturgica dei santi martiri cinesi che cade oggi, è una buona occasione per meglio comprendere la distanza abissale che separa il pontificato attuale da quelli precedenti – soprattutto quello di san Giovanni Paolo II – riguardo alla Chiesa in Cina e all’approccio con il governo di Pechino.

Comune è solo l’attenzione per i cattolici cinesi e il desiderio di recarsi in quel Paese. Nel 1982, anno in cui scrisse la prima lettera ai vescovi dedicata ai cattolici cinesi, Giovanni Paolo II ebbe a dire che «la sollecitudine per la Chiesa in Cina è diventata particolare e costante assillo del mio pontificato». E lo stesso si potrebbe dire per papa Francesco. Ma su contenuti e modalità con cui perseguire questo desiderio ed esprimere questa preoccupazione non si potrebbe essere più distanti.

Pensiamo ai martiri che si celebrano oggi: sono 120, vescovi, preti, suore, laici (c’erano anche 33 missionari) uccisi in odio alla fede in diversi periodi, tra il 1648 e il 1930. Beatificati in diversi momenti, sono stati canonizzati insieme il 1° ottobre del 2000 da san Giovanni Paolo II nel corso del grande Giubileo. «Da quando il cattolicesimo è stato introdotto in Cina e in seguito in tutte le fasi della sua storia, - scriveva due anni fa un prete cinese blogger commemorando proprio i 120 martiri - vi sono stati fedeli che hanno sacrificato sé stessi a causa della fede. Essi non avevano gambe in più (…), e certo non erano super-uomini di acciaio (…). Essi non erano nemmeno tanto saggi o persone accorte. L’umana natura è fatta di cose ordinarie, timide, preoccupate di sé, codarde. Ma, a causa della fede, essi non si sono arresi di fronte alle persecuzioni o alle minacce, e non avrebbero mai tradito il Signore. Essi sono stati forzati all’esilio e perfino tenuti dietro le sbarre. Hanno resistito ad ogni sorta di tentazione anche con timore e apprensione perché essi hanno creduto nella grande promessa del Signore Gesù».

Esperienza questa che è rivissuta negli ultimi decenni dai cattolici della Chiesa “sotterranea”, che hanno pagato con persecuzioni e discriminazioni di ogni genere la loro fedeltà alla Chiesa cattolica e la loro determinazione a non piegarsi al progetto del Partito Comunista che aveva creato l’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi (APCC) con lo scopo di convogliare il sentimento religioso in una Chiesa nazionale controllata dal Partito.

Sebbene avesse come obiettivo l’unità dei cattolici cinesi, è a questa Chiesa “sotterranea” che san Giovanni Paolo II guardava come modello, tanto che al primo Concistoro, nel 1979, ha nominato cardinale “in pectore” l’arcivescovo di Shanghai, Ignazio Kung Pinmei, allora in carcere da ben 24 anni. Alla fine Kung sarà liberato nel 1985, dopo 30 anni di carcere, e solo nel 1991 il suo cardinalato venne reso noto e poté recarsi a Roma per abbracciare il Papa.

Oggi invece è chiaro che la scelta preferenziale è caduta sull’Associazione patriottica, su un modo di mantenere viva la Chiesa scendendo a patti con il potere, anche quando sai che vero scopo di quel potere è eliminare la Chiesa. Ne è un clamoroso esempio quello che nei giorni scorsi il vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Jospeh Zen Ke-kiun, ha definito come il secondo atto di omicidio (su tre) nei confronti della Chiesa cinese da parte della Santa Sede: la legittimazione, lo scorso anno, di sette vescovi “scomunicati”, ordinati illegittimamente dall’Associazione Patriottica, a cui sono stati affidati anche alcune diocesi invitando i legittimi vescovi “clandestini” a fare posto.

Insomma il martirio non è necessario, molto meglio mettersi d’accordo in qualche modo. E quelle straordinarie testimonianze che abbiamo ascoltato e letto in occasione della canonizzazione dell’ottobre 2000, che tanto ricordano gli atti dei martiri dei primi secoli (clicca qui), oggi sono un fastidio, il segno di una rigidità che costruisce muri anziché ponti.

Quanto alle modalità, basti ricordare le infinite polemiche e le minacce lanciate dal governo cinese contro san Giovanni Paolo II e la Chiesa di Roma, proprio per quelle canonizzazioni del 2000. Pechino provò di tutto per impedirle, esercitò fortissime pressioni anche usando la stampa occidentale. Ma san Giovanni Paolo II non si smosse: spiegò che non era un gesto ostile nei confronti della Cina, ma esattamente l’opposto, e comunque papa Wojtyla rivendicava per la Chiesa l’assoluto potere di decidere chi canonizzare e quando.

Il governo cinese era profondamente irritato anche per la scelta della data: il 1° ottobre è festa nazionale in Cina e si ricorda la vittoria della “rivoluzione” maoista. Ma mesi prima era stato il governo cinese a saggiare le intenzioni del Papa venuto dall’Est, procedendo a ordinazioni illegittime. In altre parole: san Giovanni Paolo II non aveva paura di confrontarsi con il regime comunista cinese in difesa dell’autenticità della fede e rivendicando le prerogative della Chiesa, ad esempio nella nomina dei vescovi.

Sulla situazione attuale, invece, non ci sarebbe neanche bisogno di soffermarsi tanto è palese il rovesciamento rispetto al passato. La Santa Sede ha firmato due anni fa un accordo con il governo cinese, riguardo alla nomina dei vescovi, ma l’accordo – che dovrà essere verificato a settembre – è tutt’ora segreto. Si capisce solo che pur di arrivare a un accordo, la Chiesa ha ceduto su tutti i fronti, arrivando addirittura a spingere i preti “clandestini” ad iscriversi all’Associazione Patriottica.

E su tutte le malefatte del governo cinese, silenzio di tomba. Silenzio sulla repressione degli uiguri (popolazione turcomanna che abita nello Xjnjang), silenzio sulla persecuzione dei cristiani, silenzio sulle violazioni della Basic Law di Hong Kong, che prevedeva per l’ex colonia britannica di proseguire la propria vita autonoma per cinquanta anni, fino al 2047. E nessuna risposta alle questioni poste dal cardinale Zen un anno fa, quando addirittura volò a Roma per poter avvertire papa Francesco del grave errore che stava commettendo.

Come in ogni regime che si rispetti, oggi qualcuno ci spiegherà che questo pontificato è in perfetta continuità con i precedenti e che quindi non c’è motivo di agitarsi troppo. Ma la testimonianza dei martiri cinesi è un grido che interpella tutti noi e non può lasciarci indifferenti spettatori di vicende diplomatiche lontane. Il giudizio sulla Cina riguarda ognuno di noi, perché se il martirio non ha più valore, neanche lo avrà la nostra fede.