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L'ISLAM E NOI

Il Corano ammette l'aborto? Si, no, solo qualche volta

Che posizione ha l’islam sull’aborto? A differenza del cattolicesimo, ha un giudizio ambiguo che evidenzia la mancanza di un’autorità centrale e di riferimenti precisi e chiari nel Corano. Se il diritto islamico non incoraggia l’aborto, al contempo non lo proibisce in modo assoluto, prevedendo tempi e casi in cui è lecito.

Famiglia 04_03_2015
Donne musulmane

Nel febbraio 2012 l’International Union of Muslim Scholars emette un comunicato, firmato da Yusuf Qaradawi e Ali Qaradaghi, in cui espone i motivi per cui la Cedaw (Convention for the Elimination of Discrimination against Women) delle Nazioni Unite non è islamicamente corretta. Una delle motivazioni riguarda l’aborto e vede l’organizzazione islamica assumere una posizione apparentemente anti-abortista. Tuttavia, sull’aborto l’islam “ufficiale” ha una posizione ambigua che da un lato evidenzia la mancanza di un’autorità centrale e dall’altro molte differenze con la posizione cattolica. Se il diritto islamico non incoraggia l’aborto, al contempo non lo proibisce in modo assoluto.

L’ambiguità proviene innanzitutto dalla mancanza di alcun riferimento all’aborto nel testo coranico. Alcuni versetti illustrano comunque lo sviluppo dell’embrione e sono utili a comprendere la posizione islamica: «In verità creammo l'uomo da un estratto di argilla. Poi ne facemmo una goccia di sperma [posta] in un sicuro ricettacolo, poi di questa goccia facemmo un'aderenza e dell'aderenza un embrione; dall'embrione creammo le ossa e rivestimmo le ossa di carne. E quindi ne facemmo un'altra creatura. Sia benedetto Allah, il Migliore dei creatori!» (XXIII, 12-14). Ne deriva la distinzione di diverse fasi dello sviluppo dell’embrione: lo sperma (nutfa) dal concepimento sino ai primi quaranta giorni; l’aderenza o grumo di sangue (‘alaqa) dai quaranta agli ottanta giorni; l’embrione (mudgha) dagli ottanta ai centoventi giorni; infine la creazione di un’altra creatura (khalqan al-akhar) a partire dai centoventi giorni.  Le quattro scuole del diritto islamico, che hanno elaborato la tradizione islamica al fine di trarne regole e dettami, hanno tratto conclusioni sensibilmente diverse tra loro. 

La scuola hanafita - la scuola più diffusa nel mondo musulmano e che prevale per quanto riguarda il diritto di famiglia e quello religioso nei Balcani, nelle Repubbliche caucasiche, in Asia centrale, Afghanistan, Pakistan, India e Cina - consente l’aborto nelle prime tre fasi; la scuola shafiita - diffusa in Bahrein, nello Yemen e nelle zone periferiche dell’islam quali l’Indonesia e l’Africa orientale – in linea di massima consente l’aborto nella prima fase mentre nella seconda e nella terza fase lo consente seppur non in modo uniforme; la scuola hanbalita - prevalente nel Golfo persico e in Arabia Saudita – in tutte le fasi ha sfumature diverse; infine la scuola malikita - la scuola dominante in Marocco, Algeria, Tunisia e Libia – lo proibisce in tutte le fasi. Tuttavia, anche quando nel diritto islamico si parla di proibizione dell’aborto vi sono eccezioni, ma soprattutto ci si trova innanzi a un’interpretazione che presenta differenze significative rispetto alla posizione cattolica. 

Ad esempio, il sito IslamOnline pubblica il parere del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, ente presieduto Yusuf al-Qaradawi, in cui si legge: «L’aborto è proibito nell’islam sia nelle prime fasi di gravidanza sia altrimenti. Qualora si pratichi l’aborto l’entità del peccato varia a seconda dello stadio di gravidanza. […] Quando la gravidanza supera i 120 giorni, l’aborto è del tutto vietato ed è considerato un omicidio e quindi prevede una compensazione. Questa compensazione corrisponde a 213 grammi d’oro, e viene consegnata all’erede che non ha partecipato all’aborto». Ne consegue che per l’aborto dopo l’insufflamento l’islam prevede il cosiddetto prezzo del sangue che equivale a riparare il danno arrecato con un indennizzo in denaro. Quindi, se da un lato l’aborto è illecito, l’islam prevede una riparazione. D’altronde, la posizione prevalente è la seguente: se l’aborto è vietato dopo il quarto mese, diventa lecito qualora si debba  salvare la vita della madre che prevale su quella del nascituro perché, come riporta Qaradawi ne Il lecito e l’illecito nell’islam, «non si deve sacrificare la madre per suo figlio. É questa l’origine del bambino e la madre si è invece ben stabilita nella vita. Ella ha una parte indipendente nella vita e ha dei diritti e dei doveri. Inoltre, lei è il pilastro della famiglia. Non è logico sacrificarla per salvare la vita a un feto che non ha ancora una vita indipendente e che non ha ancora né diritti né doveri».

Tuttavia, la questione che più aiuta a comprendere il contesto delle posizioni islamiche sull’aborto è quella che riguarda l’aborto nel caso in cui la gravidanza sia frutto di un adulterio o di uno stupro. Com’è noto l’adulterio è uno dei reati perseguiti dal codice penale islamico che viene punito con la lapidazione. Ebbene, sempre Qaradawi in una fatwa cita ad esempio l’aneddoto, riportato in una delle raccolte ufficiali di detti e fatti di Maometto, della donna della tribù dei Ghamid, sottolineando la magnanimità e il rispetto per il nascituro da parte del Profeta. Il testo è il seguente: «Una donna dei Ghamid, un ramo degli Azd, si recò da [Maometto] e gli disse: “O Inviato di Dio, purificami”. Egli rispose: “Guai a te; vattene e chiedi perdono a Dio e rivolgiti a Lui in pentimento. […] Che cosa ti è accaduto?” Rispose di essere rimasta incinta in seguito a un adulterio. Egli disse: “Sei tu che l’hai commesso?” Annuì.  Allora il Profeta le rivolse queste parole: “Non sarai punita sinché non partorirai ciò che porti in grembo”. Uno degli ausiliari si prese cura di lei fino alla nascita del bambino. Poi l’uomo andò dall’Inviato e gli comunicò che la donna dei Ghamid aveva partorito.  “Allora”, commentò l’Inviato, “non la lapideremo perché altrimenti nessuno lo allatterà”. Uno degli ausiliari si alzò e disse: “Inviato di Dio, lascia la responsabilità di questo bambino a me”. E la donna venne lapidata a morte». 

Ne consegue che l’islam, a seconda dei casi, può decidere di salvaguardare o la vita della madre oppure la vita del nascituro, nel caso in cui la madre abbia contravvenuto ai dettami islamici e quindi rientri nei casi in cui nell’islam si appone un “ma” alla sacralità della vita. L’altra eccezione riguarda l’aborto a seguito di uno stupro. Anche in questo caso Qaradawi si è pronunciato e, dopo avere ricordato che la donna non ha commesso alcun peccato, ha invitato i giovani musulmani a sposarla e a prendersi cura di lei e del bambino. Ma per quanto concerne l’aborto in sé v’è un passaggio ambiguo perché, secondo Qaradawi, «non c’è dubbio che per una musulmana essere violentata da un feroce nemico è un valido motivo per abortire». Tuttavia non vi sarebbe nulla di male a tenere il figlio. É interessante il corollario sulla religione del nascituro qualora il padre non fosse musulmano. L’islam prevede che sia solo il padre a trasmettere la religione, ma Qaradawi sottolinea che nel caso specifico non c’è dubbio che il bambino sia musulmano poiché l’islam è l’unica vera religione.

Per concludere, nonostante un’apparente somiglianza con il cristianesimo nella condanna dell’aborto, il mondo islamico sostanzia il divieto in modo diverso, interpretando la vita e la sacralità della vita del nascituro a seconda dei tempi, dei luoghi e del contesto.