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TERZA REPUBBLICA

Il doppio volto del M5S, di governo e opposizione

Dopo le elezioni regionali i detrattori della Lega le hanno rinfacciato di aver rispolverato la teoria andreottiana dei “due forni”: al governo nazionale col M5S e nei governi locali col Centrodestra. Adesso anche il M5S potrebbe fare la stessa cosa, dopo che nel Pd ha vinto Zingaretti. Ma quanto somiglia alla Prima, questa Terza Repubblica?

Politica 08_03_2019
Zingaretti e Di Maio, nuove intese?

In occasione delle elezioni regionali i detrattori della Lega le hanno rinfacciato di aver rispolverato la teoria andreottiana dei “due forni”, cioè delle alleanze variabili. Il Carroccio, infatti, ha siglato un contratto di governo con i Cinque Stelle, dopo essersi contrapposto ad essi in campagna elettorale, ma continua a governare con il centrodestra tradizionale (Lega-Forza Italia-Centristi-Fratelli d’Italia) nelle regioni e negli enti locali.

Con la vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie Pd di domenica scorsa e l’archiviazione dell’esperienza renziana, anche per i Cinque Stelle si profila la possibilità di giocare su due tavoli: al governo nazionale con i leghisti, su base regionale (e locale) con chi capita, eventualmente anche con il Pd. Eh già, perché soltanto 24 ore dopo l’incoronazione del governatore del Lazio alla guida del Pd è stato proprio il vicepremier, Luigi Di Maio che, magari solo per distogliere l’attenzione dalle polemiche sulla Tav, ha chiesto al neoeletto segretario dem di appoggiare la proposta di legge pentastellata sul salario minimo garantito. D’altronde Di Maio, dopo le cocenti sconfitte del suo movimento alle regionali in Abruzzo e Sardegna, ha impresso una sterzata alla linea politica grillina, aprendo alla possibilità di alleanze alle elezioni amministrative. Niente più corse solitarie, quindi, destinate all’insuccesso, visto anche il crescente calo nei sondaggi e nelle urne.

Peraltro non è un mistero che negli ultimi mesi Zingaretti abbia strizzato l’occhio alla componente grillina più filo-sinistra che fa capo al Presidente della Camera, Roberto Fico. Pur escludendo a parole intese con il Movimento Cinque Stelle, il governatore del Lazio si è sempre detto interessato a recuperare un dialogo con gli elettori di quel movimento che, magari, fino a qualche anno fa votavano a sinistra e il 4 marzo dell’anno scorso hanno deciso di puntare sulla novità pentastellata.

Sembra quindi trionfare il trasformismo più disinvolto e sfacciato, che riporta le lancette dell’orologio della politica italiana agli anni più bui della Prima Repubblica, quando gli esponenti del pentapartito non si precludevano alcuna possibilità per il dopo-voto e restavano vaghi in campagna elettorale sulle alleanze future. Nella Seconda Repubblica c’è stata un po’ di chiarezza con il bipolarismo incarnato da Silvio Berlusconi e Romano Prodi, ma poi si è ripiombati nel caos delle estenuanti negoziazioni tra partiti per dar vita a maggioranze inedite e rissose, precarie e inconcludenti, fino ad arrivare ai governi tecnici, come quello Monti, appoggiato da quasi tutte le forze politiche. Oggi con il contratto di governo si è di fatto legittimato il principio trasformistico, basato sulla possibilità di stringere alleanze con chiunque, pur avendo durante la campagna elettorale assicurato ai propri elettori che non si sarebbero fatti accordi con i partiti avversari. Il celebre slogan “dichiarare agli elettori prima del voto con chi si intende governare” non risulta applicato nella cosiddetta Terza Repubblica, che da questo punto di vista sembra sdoganare platealmente le vecchie pratiche trasformistiche.

Sul fronte grillino, poi, c’è una aggravante che riguarda la trasparenza dei processi decisionali e l’opacità della piattaforma privata Rousseau. Quando il Movimento Cinque Stelle era all’opposizione, rivendicava una verginità e una purezza morale attraverso l’imposizione dello streaming a riunioni e confronti con le altre forze politiche. Rimase celebre la diretta on line del confronto tra la delegazione grillina e quella del Pd. Nelle intenzioni di Beppe Grillo e i suoi c’era l’idea di sbeffeggiare agli occhi dell’opinione pubblica le profferte dem all’”incorruttibile” Movimento 5 stelle, che per converso ostentava la sua presunta diversità morale, non accettando in alcun modo proposte di governo condiviso.

E allora viene da chiedersi dove sia finita questa attitudine di Luigi Di Maio e degli altri vertici Cinque Stelle verso la trasparenza dei processi decisionali. Oggi che sono loro nelle “stanze dei bottoni” non è più conveniente mostrare in diretta trattative, discussioni, confronti tra premier e vicepremier o tra esponenti del governo e parti sociali e produttive o tra ortodossi grillini e governativi grillini sulla Tav, sulle ricette economiche e sulla spartizione di poltrone nelle società partecipate e negli enti di nomina statale? La gente non ha più il diritto di sapere queste cose ora che il Movimento Cinque Stelle è al governo? Non si tratta di una domanda oziosa. Sarebbe stato davvero uno dei tratti innovativi di un sedicente “governo del cambiamento” quello di mantenere anche dopo la campagna elettorale questa pratica di streaming, cioè di mostrare senza veli ai cittadini tutto ciò che si discute e si decide nei luoghi istituzionali. E invece ai Cinque Stelle ora questo non conviene. Quindi l’hanno cancellato con un colpo di spugna. Così come il limite dei due mandati o l’opposizione al Tap o ad alleanze con altri partiti o al principio di uguaglianza di fronte alla legge (vedi il “no” al processo per Salvini). Ma continuando a tradire le promesse elettorali Luigi Di Maio e soci vanno incontro ad altre sonore sconfitte. E non sarà la teoria dei due forni a salvarli.