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RIVOLUZIONI

Il governo Monti contro le professioni

Con il pretesto di attaccare i presunti privilegi per esempio dei giornalisti,
lo Stato mira a inglobare gli enti previdenziali professionali.

Attualità 28_12_2011
La stampa

 

Sciogliere i corpi intermedi per coagularli successivamente in uno Stato onnicomprensivo. È il criterio ispiratore tanto della legge Le Chapelet, nella Francia rivoluzionaria, quanto del progetto del ministro del Lavoro, professoressa Elsa Fornero, che, con il pretesto di attaccare i presunti privilegi dei giornalisti, vorrebbe inglobare gli enti previdenziali professionali.

In entrambi i casi, si è proceduto con il pretesto di abolire i privilegi, corporativi o “di casta”, allo scopo dichiarato di favorire una più ampia solidarietà sociale. Storicamente il risultato conseguito dai giacobini fu un fallimento e non poteva essere diversamente, dato che abbattendo gli istituti della solidarietà privata non si ostacola soltanto la giustizia commutativa ma anche quella distributiva.

Basterebbe l’equivoco terminologico sull’etimo di “privilegio”, germinato dal congiungimento di privata e lex, che sta a indicare una “legge particolare”, ma nemmeno lontanamente ad personam, per circoscrivere il luogo comune che dà luogo all’abisso d’insipienza giuridica apertosi poi davanti alle categorie sociali e professionali con la comparsa del “governo dei tecnici”, guidato dal senatore a vita professor Mario Monti.

Se l’applicazione del principio secondo cui “la legge è uguale per tutti” è doverosa, in quanto rispettosa dell’uguaglianza degli individui di fronte alle norme generali del diritto, è altrettanto chiaro che l’oggetto dei contratti vincola esclusivamente le parti che li stipulano. Altri soggetti, si tratti di autorità civili, politiche o religiose, potranno intervenire sulla materia o sulle modalità del contratto nell’eventualità in cui siano violate norme generali o s’infrangano le regole volte ad assicurare il bene comune. Perciò è auspicabile che le associazioni mafiose siano sciolte in quanto si rivelano di nocumento all’ordine civile e alla pace sociale. Quanto vale per il crimine organizzato è estensibile ai gruppi terroristici e non vi è chi dubiti della nullità delle nozze celebrate senza il consenso degli sposi o dell’illiceità delle compravendite di merci rubate, così come si considera non degno di rispetto il patto stretto fra un killer e il mandante di un omicidio.

Quando invece si attenta autoritativamente all’indipendenza e all’autonomia delle professioni, sia in base a un führerprinzip sia sulla spinta di esigenze emergenziali del bilancio statale, a compiere un illecito non sono più i cittadini, ma le istituzioni che rivelano così una tentazione totalitaria contraria alla loro naturale vocazione di servizio pubblico.
Si tradisce così il principio della sussidiarietà, che suggerisce la presenza meno incombente possibile dello Stato nella sfera di libertà della società.

È il caso tipico degli attacchi agli Ordini, in particolare a quello dei giornalisti, che coinvolge tutta una serie di organismi di categoria, assistenziali, previdenziali e sindacali, la cui sommatoria dà vita a ciò che si può ancora legittimamente definire come residuo di una corporazione.
Si tratta evidentemente di una parola tabù, pressoché proibita perché associata a “corporativo”, lemma a sua volta espunto dal lessico politicamente corretto, in quanto inteso nell’accezione parziale e malevola subita anche dall’aggettivo “partigiano”, fino a divenire entrambi sinonimi di “rivolto a ottenere vantaggi per una fazione a scapito dell’interesse generale”.

In quel senso semantico, “la corporazione che difende i privilegi” è un elemento di scarsa compatibilità con l’ambiente che la circonda. Capisco anche che, senza un’adeguata explicatio terminorum, ogni accordo diviene complotto e ogni associazione è considerata tesa a delinquere.
Si può tentare comunque di sottrarsi alla trappola della teoria della guerra per bande che finirebbe per favorire - e sta favorendo - l’affermazione di un governo tecnocratico, cioè privo della caratteristica del consenso. A fornire quella legittimazione alle rappresentanze politiche concorrono anche i corpi intermedi, così come li definisce la dottrina sociale della Chiesa, con la loro naturale vocazione bipartisan. Sono garanzia di libertà, non di impunità, a meno che siano inquinati da ideologie contrarie alla loro natura. La legge 3 febbraio 1963, n. 69, che istituisce l’Ordine dei giornalisti e regola la professione di questi ultimi impedisce che un editore, un direttore o un semplice caposervizio, all’interno di una redazione, possano obbligare un giornalista a firmare con il proprio nome e cognome scritti o servizi d’informazione che contrastino con la sua coscienza. È evidente che si tratta di salvaguardie strettamente legate all’articolo 21 della Costituzione italiana, che tutela la libertà d’espressione.

Eppure non è sufficiente che quest’ultimo diritto sia proclamato. Affinché gli sia assicurata reale sostanza, si sono rese necessarie alcune altre delimitazioni del potere pubblico, sotto forma di articolazioni sociali. Una di esse consiste nella struttura di una Cassa autonoma di assistenza dei giornalisti italiani (Casagit), a cui gl’iscritti volontariamente contribuiscono per ottenere prestazioni e servizi sanitari. Non si giustificherebbe una separazione dal Servizio sanitario nazionale né tanto meno una sottrazione dal contributo delle imposte dirette e indirette che lo sostengono. Perciò i giornalisti pagano come e quanto gli altri cittadini, pur riservandosi la facoltà di aderire a una convenzione fra una loro rappresentanza e alcuni medici che altrettanto liberamente prestano la propria opera. Lo può fare un singolo, con una polizza assicurativa meno vantaggiosa, a maggior ragione possono farlo i singoli raggruppato, con maggior convenienza per entrambe le parti e per la collettività intera, sgravata del carico di esami, visite specialistiche, terapie e interventi chirurgici, di cui i giornalisti e i loro familiari usufruiscono evitando di intasare le Asl.

Lo stesso vale per l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi), che è vissuto, vive e vivrà esclusivamente con i denari versati dai giornalisti, e da essi soltanto. Anzi, supplisce a funzioni dello Stato quando, nelle crisi aziendali, copre i costi di cassa integrazione e prepensionamenti, costi che in tutti gli altri settori sono a carico della collettività. Fra l’altro, l’Istituto ha già messo in atto, con il concorso delle parti sociali, misure che consentono una sostenibilità dei propri bilanci e della propria missione anche nel lungo periodo, come costantemente verificato e certificato dal ministero del Lavoro i cui rappresentanti siedono nel consiglio di amministrazione dell’Inpgi. Ecco perché è sorprendente che proprio il ministro del Lavoro faccia riferimento a una presunta insostenibilità dei conti dell’Inpgi.

Infine, c’è il sindacato, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che si occupa della difesa dei diritti e del reddito degli oltre 100mila giornalisti italiani, professionisti e no, tra i quali 25mila collaboratori e precari, il 60% dei quali guadagna meno di 5mila euro l’anno, senza contare il dramma delle migliaia di disoccupati, o con i redditi tagliati pesantemente dai contratti di solidarietà o in cassa integrazione.

C’è un’unica differenza, rispetto agli altri lavoratori, che il ministro Fornero non è stata in grado di cogliere quando ha alluso ai privilegi di cui godrebbero i giornalisti italiani. La categoria è stata la prima ad avere sottoscritto un contratto nazionale collettivo di lavoro. Nel corso di un secolo ha maturato capacità di negoziare diritti e doveri che si sono rivelati preziosi per i giornalisti italiani ma, soprattutto, per tutelare il diritto all’informazione dei cittadini e quello della dignità professionale. Sono questioni di qualità, più che di quantità, che non possono essere sacrificate all’ingordigia della burocrazia e della pubblica amministrazione.