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TERRORISMO

Il modello tunisino vacilla

La Tunisia rappresenta per il mondo arabo la speranza di una transizione verso la democrazia, ma i colpi inferti dal terrorismo ne mettono in rilievo tutta la debolezza politica, economica, sociale. La decisione presa ieri di chiudere 70 moschee e lo scioglimento di partiti e associazioni non in linea con la Costituzione arriva forse troppo tardi.

Esteri 28_06_2015
Attentato in Tunisia

Il modello tunisino vacilla. Dopo l’attentato numero 47 dall’inizio della cosiddetta primavera araba, un attentato che – come quello del Museo del Bardo – ha colpito prevalentemente turisti, la Tunisia è costretta a ripensare a quanto accaduto negli ultimi quattro anni e mezzo, a fare il bilancio della sua transizione verso la democrazia. Purtroppo se grazie a una solida società civile, a un sostrato di islam riformato nel corso degli ultimi due secoli della sua storia, a un cinquantennio di “laicità islamica”, a numeri inferiori rispetto all’Egitto, a una popolazione con tasso di alfabetizzazione più elevato rispetto ad altri paesi dell’area, la Tunisia sembrava potere traghettare verso un futuro migliore e democratico, l’attentato di Hammam-Sousse ha evidenziato tutta la precarietà economica, politica e sociale del paese. 

Il 21 giugno scorso Mohamed Haddad, professore di Storia delle religioni comparate all’Università di Tunisi, pubblicava sul quotidiano arabo internazionale Al Hayat un editoriale profetico in cui sottolineava che “la Tunisia sta attraversando un momento critico” e che la stagione turistica sarebbe stata disastrosa per via del terrorismo, ma ribadiva altresì che la crisi non si limita solo al lato economico, ma si estende anche all’aspetto politico poiché le istituzioni della seconda repubblica tunisina sono paralizzate, la nuova Costituzione è solo un pezzo di carta.

Haddad ricordava anche la paralisi dei partiti tunisini denunciando non solo le divisioni all’interno di Nidaa Tounes, il partito vincente alle ultime elezioni, dovute al fatto che non si tratta di un vero partito bensì di una coalizione, ma anche il fatto che l’unico vero sostenitore di Nidaa Tounes sembra essere Rached Ghannouchi, il leader del partito islamista Ennahdha. Ultimo, ma non meno importante, Haddad si domandava come potesse un popolo, quello tunisino, maturare e interiorizzare la democrazia, vivendo in una simile condizione di instabilità e precarietà economica e di privazione dei servizi sociali di base; come si potessero biasimare migliaia di giovani che avevano scelto di unirsi ai progetti jihadisti o di migrare clandestinamente sulle navi della morte. Ebbene, a distanza di pochi giorni la triste realtà ha dato ragione all’accademico tunisino. 

E’ lo stesso motivo per cui alcuni tunisini hanno criticato le dodici misure urgenti, annunciate sabato 27 giugno dal primo ministro Habib Essid, poiché giunte troppo tardi. Essid ha coraggiosamente annunciato la chiusura di settanta moschee che non sono ancora sotto il controllo del ministero degli Affari religiosi, la dissoluzione di tutti i partiti e associazioni che non rispettano la Costituzione tunisina, la trasformazione di tutte le aree in cui è accertata la presenza di jihadisti in zone militari chiuse e sorvegliate, l’avvio di un dialogo nazionale sulla lotta contro il terrorismo. Più tardi è stata annunciata la data dell’entrata in vigore della nuova legge antiterrorismo: 25 luglio. 

Saranno sufficienti queste misure in un piccolo paese, schiacciato tra la Libia e l’Algeria, schiacciato dalla crisi economica e dalla delusione di molti giovani che, pur avendo studiato, non vedono un futuro innanzi a sé? Un paese dalle cui prigioni, il 26 gennaio 2011, sono evase 9500 persone, un paese il cui governo nel febbraio 2011 ha votato un’amnistia che ha rimesso in libertà anche detenuti dal passato sospetto e non semplici oppositori del regime di Ben Ali, un paese che nel luglio 2012 riconosce come partito panislamista Hizb al-Tahrir, un paese in cui il partito Ennahdha al potere giocava ad ammansire i giovani salafiti chiedendo loro di avere pazienza, un paese che ha visto circa tremila giovani partire alla volta della Siria?

Il 21 giugno Mohamed Haddad metteva in guardia dal “crollo del modello tunisino”, un crollo che avrebbe costretto a ripensare la democrazia nel mondo arabo. L’attentato di Hammam Sousse ha certamente incrinato il vaso di terracotta della democrazia tunisina e della Tunisia che non deve, non può ricadere in un regime totalitario, ma che senza dubbio dovrà riflettere e in tempi molto rapidi dovrà decidere che strada intraprendere. La soluzione credo si possa trovare nella storia della Tunisia stessa, nel suo DNA fatto di un islam riformato che ha dato vita al codice dello Statuto personale del 1956 in cui in nome dell’islam si vietava la poligamia, un islam nazionale e non di importazione.

Un islam che non è nemmeno quello dei Fratelli musulmani, il cui teologo di riferimento Yusuf Qaradawi, mentore di Rachid al-Ghannouchi, alla vigilia delle prime elezioni dagli schermi di Al Jazeera affermava che  “non dare il voto a un candidato dell’islam è un peccato! Un peccato in particolare nella Tunisia che è stata governata per mezzo secolo da miscredenti occidentalizzati”. D’altronde Ghannouchi stesso attribuisce ancora oggi la diffusione del terrorismo in Tunisia all’”estremismo laico” di Ben Ali, usando un’espressione che ricalca il titolo di un saggio di Qaradawi.

La Tunisia non deve perdere la propria identità, la propria specificità e deve combattere a testa alta sia la crisi economica sia l’amnesia nei confronti di un passato che seppur abitato dai fantasmi di regimi totalitari contiene anche i semi, nella società civile e nell’associazionismo femminile, che sono riusciti ad arginare più volte l’avanzata dell’islam politico di Ennahdha. Tutti questi fattori se potenziati potranno rappresentare un antidoto tunisino all’avanzata dell’estremismo islamico.