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PRIMARIE USA

Il New Hampshire premia la psicologia di Romney

L'ex governatore del Massachusetts conquista il suo secondo Stato.
Ma presta scenderà al Sud, dove
il vento gli è forse meno favorevole.

Attualità 11_01_2012
Mitt Romney vincente

 

Mitt Romney ha vinto le primarie Repubblicane dello Stato del New Hampshire conquistando il 39,28% dei consensi (97.591 voti). Alle sue spalle si sono classificati Ron Paul con il 22,89% (56.872 voti), Jon Huntsman con il 16.89% (41.964 voti), Rick Santorum con il 9,43% (23.432 voti), Newt Gingrich con un 9,43% "più piccolo" (23.421 votri) e Rick Perry con lo 0,71% (1.764). Stante che in New Hampshire (non ovunque è così) il sistema di assegnazione dei 12 delegati in palio, quelli che si recheranno alla Convenzione nazionale del Partito Repubblicano di agosto per decidere la nomination finale, segue il criterio proporzionale, Romney ne ottiene 7, Paul 3 e Hunstman 2. E questi risultati offrono almeno tre dati certi su cui meditare.

Il primo è che Romney è riuscito là dove dal 1976 nessun candidato Repubblicano era riuscito: ha conquistato sia l’Iowa sia il New Hampshire. Stante l’importanza chiave, soprattutto psicologica, che hanno le due consultazioni elettorali con cui, dal 1972, si aprono le primarie presidenziali degli Stati Uniti, questo risultato record pone sul futuro della corsa alla nomination una caparra importante: altrettanto, di per sé, psicologica, ma non per questo trascurabile.

Il secondo è che Romney ha vinto a mani basse, ottenendo margini nettissimi sui concorrenti, quando si è presentato all’elettorato Repubblicano mediamente moderato del New Hampshire laddove davanti all’elettorato Repubblicano mediamente assai più conservatore dell’Iowa l’ha invece spuntata solo di strettissimo margine su Santorum (peraltro benedetto, alla vigilia del voto in New Hampshire, da un inaspetatto endorsement di The Wall Street Journal, il quale preferisce il suo programma di detassazione rispetto a quello di Romney).

Il terzo è la costante, incombente presenza nei posti alti della classifica dell’outsider Paul, che ha fatto bene sia in Iowa sia in New Hampshire, anzi che, nel complesso e tutto considerato, ha ottenuto in media i risultati migliori di tutti i candidati. La sua sfida ai ceti dirigenti di entrambi i partiti sta cioè ottenendo grande attenzione da parte dell’elettorato, soprattutto indipendente, e taglia trasversalmente tutte le altre pur lecite considerazioni che si possono sin qui fare. Difficile del resto immaginare che il suo pungolo non finisca poi per incidere sull’intero andamento della corsa, al di là dei risultati che Paul otterrà negli Stati a venire e di cosa egli poi deciderà di fare.

Tutto ciò indica che l’esordio di gran successo di Romney proietta imperiosamente la sua figura sul proseguio immediato delle primarie non tanto perché i risultati di Iowa e New Hampshire possano da soli dichiarare chiusa anzitempo la partita, ma perché grazie a essi adesso Romney può più facilmente di altri investirvi economicamente e, ancora una volta, psicologicamente.
Nulla può garantire oggi la nomination a Romney: ci sono Stati dell’Unione che alla Convenzione nazionale del Partito Repubblicano manderanno in agosto un numero così grande di delegati da potere fare da soli la differenza; e quando le primarie si svolgeranno non più in un solo Stato alla volta, ma in diversi (e "pesanti") contemporaneamente, le cose potrebbe essere parecchio diverse. Ma è evidente che Romney può sfruttare già a proprio grande vantaggio il volano dell’Iowa e del New Hampshire.
Come del resto già sta facendo. Parte enorme di questo iniziale successo elettorale dell’ex governatore del Massachusetts è infatti dovuto al fatto che egli viene costantemente presentato e quindi percepito come il "candidato possibile". Per diversi elettori, cioè, Romney non rappresenta la scelta ideale, ma quella che realisticamente ha chance di ottenere il consenso finale dell’intero partito e quindi, una volta posto direttamente davanti a Barack Obama, possibilità di vittoria alla Casa Bianca.

Su di lui ricade dunque la scelta di realpolitik che un numero enorme di Repubblicani, ma anche e talora soprattutto di elettori indipendenti compie in nome di quella che viene sentita come la priorità unica e irrinunciabile: impedire la rielezione di Obama. Se questo è il fine, se questo è l’unico fine, finisce allora che un candidato vale in teoria quanto un altro a patto di avere la possibilità concreta di mettere l’avversario  Democratico alle corde. Appunto - si dice - Romney.
Il ragionamento ha evidentemente una sua logica, soprattutto nel contesto assai polarizzato in cui si svolgono sempre le elezioni presidenziali statunitensi e a maggior ragion oggi che la politica di Obama pone i cittadini di fronte a un nettissimo "o con me o contro di me". Il ragionamento ha appunto una sua logica, ma porta inevitabilmente una parte dell’elettorato - diversi Repubblicani, ma probabilmente anche un numero decisivo d'indipendenti - a sacrificare “per il momento” ogni altra considerazione.

Gli americani, e tra loro evidentemente i Repubblicani, sono infatti oggi alla ricerca soprattutto e anzitutto più di un anti-Obama che di un presidente. Le due cose possono certo coincidere, ma il rischio è che nel mezzo vada perso qualcosa d’importante.
Per obbedire a questo comandamento, quindi, l’elettorato sembra essere disposto a consegnare a Romney un successo dopo l’altro contando sul fatto che sia lui l’uomo giusto per sconfiggere l’avversario Democratico. A questo punto, però, il problema vero è che questa percezione di Romney si fonda solo su se stessa. Che Romney sia il candidato alla fine più eleggibile dipende solo dal fatto che Romney viene continuamente definito "più eleggibile". Nessuno, evidentemente, ha la controprova, e nessuno sa se le chance di Romney siano vere. Ma più lo si afferma e più Romney vince, e più Romney vince e più lo si afferma; così, l’ex governatore del Massachusetts avanza anche attirando il consenso più realistico che idealistico di una parte cospicua dell’elettorato, conquistato da quella che non può affatto essere già una certezza e che per ora somiglia a un cane che si morde la coda. Alla fine, peraltro, quel meccanismo può davvero fare di Romney l’uomo che può battere Obama per sfiancamento degli altri contendenti.

Il 21 gennaio si svolgeranno le primarie in uno Stato importante: grande, del Sud e con un elettorato Repubblicano mediamente molto conservatore, certamente per molti versi agli antipodi di quello del New Hampshire. Sarà lì che si vedrà se il meccanismo autoalimentantesi che ha sospinto in avanti Romney fino a oggi funziona anche in territori più difficili, oppure se la partita può decisamente riaprirsi grazie a un elettorato che cerca sì l’anti-Obama ma senza, ancora, sacrificare altre considerazioni.
Se Romney vincerà alla grande in South Carolina è probabile che per lui la strada cominci a essere in discesa. Se invece in South Carolina dovessero fare bene altri - per esempio Santorum e forse ancora più Gingrich, che a quelle latitudini hanno, almeno sulla carta, qualche possibilità concreta in più - allora tutto sarà nuovamente in discussione.

Sul South Carolina ha puntato del resto tutto Perry, volutamente inesistente in Iowa e in New Hamsphire. Se quello Stato del Sud non lo piazzerà però tra i primi due classificati, o al massimo al terzo posto e comunque a stretto ridosso dei primi, Perry sarà fuori. Come fuori parrebbe già essere ora Huntsman: aveva snobbato anche lui l’Iowa puntando sul New Hampshire, ma qui non è andato al di là di un terzo e molto distanziato posto. Un guadagno troppo basso visto l’investimento.

Un'ultima considerazione. L’Iowa ha dimostrato che negli Stati Uniti oggi un candidato cattolico conservatore, Santorum, può tranquillamente conquistare l’elettorato evangelical conservatore. Il New Hampshire ha dimostrato che i cattolici politicamente moderati (la maggioranza in quello Stato) possono tranquillamente votare un candidato mormone, Romney, soprattutto se il candidato cattolico, Santorum, è, a differenza loro, un conservatore. Ebbene questo non significa che nelle elezioni statunitensi il fattore religioso non abbia peso o non lo abbia più come in passato. Insegna invece l’esatto contrario. Il fattore morale, che deriva da una precisa visione religiosa, conta eccome: conta così tanto che la proposta netta in difesa dei "princìpi non negoziabili" di un candidato cattolico conservatore riesce facilmente a conquistare il consenso di non cattolici conservatori come gli evangelical (maggioranza dell’elettorato religiosamente identificabile in Iowa), mentre il progressismo, o quantomeno il moderatismo, di certi cattolici "adulti" (ampia fetta dell’elettorato religiosamente identificabile del New Hampshire) rifiuta di netto i leader correligionari se sui "princìpi non negoziabili" non fanno sconti.

Se questo saprà produrre un maggioranza morale confessionalmente trasversale come è già successo in passato (per esempio attorno a Ronald Reagan  [1911-2004] o a George W. Bush jr. nel 2004) è presto per dirlo, ma soprattutto per dire se potrà avere successo politico a livello nazionale. Le premesse ci sono. E questo, man mano che le elezioni scenderanno negli Stati del Sud o torneranno nell’Heartland della "provincia" potrebbe fare una grande differenza.

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