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EMERGENZA

Il tragico dilemma degli etiopi cristiani in Libia

Il filmato dell'esecuzione dei trenta etiopi cristiani, diffuso domenica, è un vero e proprio documentario con cui si spiega che c'è un'unica possibilità per sopravvivere nello Stato islamico: pagare la tassa islamica di protezione. Una grave minaccia, facilitata dall'indifferenza della comunità internazionale.

Esteri 21_04_2015
Esecuzione di etiopi, da video diffuso dai terroristi

Libia, etiopi uccisi

Sono già spariti dalle home page dei siti di informazione. Dove peraltro - nel giorno dominato dalla tragedia della nave carica di immigrati affondata nel Mediterraneo - erano entrati appena di striscio. Sono già stati derubricati al rango del «già visto» i cristiani etiopi massacrati semplicemente perché cristiani in Libia dai jihadisti dello Stato islamico. Vittime mostrate come un trofeo in un nuovo video rivoltante, diffuso proprio mentre - a poche centinaia di miglia nautiche più a nord - si consumava la nuova tragedia del mare.

Al Furqan - il braccio mediatico dei jihadisti - aveva annunciato in rete fin da sabato che stava per diffondere una nuova «produzione». E domenica sono arrivate davvero le immagini, con una trentina di uomini uccisi orrendamente in due gruppi - alcuni su una spiaggia, altri nel deserto - nel macabro rituale jihadista. Immagini tremende, accompagnate da una didascalia che definisce le vittime come «seguaci della croce provenienti dalla nemica Chiesa etiope».

Abbiamo pensato tutti a un tragico remake della vicenda dei 21 copti, uccisi esattamente in quel modo nel mese di febbraio. Ma ci sono una serie di differenze significative tra le due vicende che rendono ancora più grave il silenzio che sta scendendo in fretta su questa vicenda. La prima sta nel fatto che c'è un filo rosso a legare tra loro le due tragedie venute alla luce domenica mattina: dopo l'iniziale incertezza - infatti - ieri da Addis Abeba sono arrivate le prime conferme sul fatto che gli uccisi siano realmente dei cristiani etiopi. Sui social network sono cominciate a circolare notizie di famiglie che hanno riconosciuto propri congiunti.

E da questi riscontri sembrerebbe che gli uccisi fossero anche loro migranti giunti in Libia con l'obiettivo di imbarcarsi per l'Europa. È la convinzione espressa anche dalla Chiesa ortodossa etiope, attraverso una dichiarazione di un suo portavoce, l'abba Kaletsidik Mulugeda. Del resto dall'Etiopia - Paese costantemente agli ultimi posti nelle classifiche sugli indici di povertà - non si emigra solo verso Nord: in queste stesse ore Addis Abeba fa i conti anche con i migranti etiopi sotto le bombe dei sauditi nello Yemen e altri connazionali alle prese in Sudafrica con reazioni xenofobe non diverse da quelle sotto i riflettori in altre latitudini.

Erano migranti anche loro, dunque. Eppure morire sgozzati dallo Stato islamico perché cristiani - venduti al boia dagli stessi trafficanti di uomini - oggi fa meno notizia che morire affogati su una nave stipata di disperati che si ribalta in mezzo al Mediterraneo. Tra l'altro suona quanto meno beffarda la definizione di «nemici» data dai jihadisti ai cristiani etiopi. Perché andandosi a rileggere la storia dell'islam delle origini si scopre che i re di Axum offrirono protezione ai primi seguaci di Maometto quando loro erano perseguitati nella Penisola arabica; e secondo la tradizione islamica fu il Profeta stesso - poi, nel tempo dell'espansione - a imporre ai suoi seguaci di risparmiare il regno cristiano di Axum, come segno di riconoscenza. Per gli jihadisti di oggi - evidentemente - quell'indicazione non vale più: sono nazareni come tutti gli altri.

Ed è il secondo aspetto per il quale faremmo tutti bene a guardare dentro un po' meglio anche a questa vicenda. Perché nel video diffuso domenica da al Furqan non ci sono solo i cinque minuti con le orrende immagini dell'eccidio e le minacce in inglese del jihadista mascherato («Non sarete al sicuro, neppure nei vostri sogni, finché non accetterete l'islam»).

Il video comincia in realtà molto prima e dice molto di più già dal suo titolo: «Finché non giunga loro la prova evidente» è una citazione della sura 98 del Corano e si propone come una sintesi del pensiero dell'islam sui cristiani. Nei suoi 29 minuti di durata inizia spiegando le differenze tra la Chiesa di Roma (raffigurata con il volto di Benedetto XVI), le Chiese d'Oriente e quelle protestanti. E arriva dritto al punto: dopo la rivelazione islamica ai cristiani è offerta un'unica possibilità, quella di sottomettersi e pagare la jizhya, la tassa islamica di protezione. A spiegare la «regola» nel video è il saudita Anas al-Nashwan, una figura di spicco nell'universo jihadista. E a riprova - nel «documentario» - vengono esibite delle immagini di alcuni cristiani che in una zona non precisata della Siria o dell'Iraq dicono di vivere oggi in pace, dopo aver pagato il loro tributo allo Stato islamico. Anche se poi il filmato mostra comunque i miliziani intenti «a purificare dalle insegne politeiste» i campanili di Mosul...

Alla fine di tutto arrivano le immagini sull'eccidio dei cristiani etiopi, mostrati come la sorte che attende chi non accetta questo tipo di sottomissione. A differenza dunque del video altrettanto drammatico dei copti, questa volta la strage rientra in un racconto, dentro a un copione. E appare non come l'opera di un gruppo isolato che uccidendo dei cristiani si ritaglia un suo spazio dentro il caos libico, ma come un'azione che si ricollega a quanto lo Stato islamico sta realizzando a Mosul o a Raqqa.

È un macabro salto di qualità quello proposto domenica da al Furqan. Lanciato da un Paese dove - prima della caduta di Gheddafi - erano più di un milione i lavoratori africani o asiatici attirati dalle possibilità di lavoro offerte dall'industria petrolifera e dal suo indotto. Molti di loro - anche cristiani - nonostante tutto sono ancora lì, privi di qualsiasi protezione. Facile preda - esattamente come i migranti - per questi aguzzini che non hanno bisogno nemmeno di un barcone.