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L'EDITORIALE

Islamici più saggi di Pisapia

La Grande Moschea proposta dalla nuova giunta di centrosinistra non si farà, ma solo per le divisioni interne ai gruppi islamici, alcuni dei quali - violenti o non violenti - sono indisponibili all'integrazione nella società italiana.

Editoriali 11_08_2011

Benché avessero sostenuto la candidatura a sindaco di Giuliano Pisapia, sono gli stessi musulmani ad ammettere di non volere pregare tutti insieme in un unico luogo di culto a Milano. Rimane quindi sulla carta, così come nel programma elettorale del centrosinistra, il vago progetto di una grande moschea che si preannuncia irrealizzabile, ancorché definita come «una priorità» nel comunicato ufficiale diffuso lunedì scorso da Palazzo Marino.

Eppure, al tavolo con la vicesindaco Maria Guida e gli assessori al Benessere e alla Sicurezza, Chiara Bisconti e Marco Granelli, i rappresentanti della comunità islamica hanno espresso il loro scontato orientamento: ognuno rimarrà a gestire il proprio club di fedeli, continuando a guardarsi in cagnesco con gli altri correligionari. Quanto loro promesso - una serie di sale di preghiera - in fondo non è che la misera fotografia dell’esistente e non aggiunge alcunché. Anzi, semmai conferma l’ipotesi di zone d’ombra, accanto a esempi di buone pratiche, all’interno del mondo islamico milanese e lombardo.

La divisione passa non solo fra chi rispetta le regole e chi propugna l’islamizzazione della società, ma anche fra le etnie, le scuole giuridiche, le appartenenze nazionali e i movimenti contrapposti. Un guazzabuglio inestricabile con gli strumenti del multiculturalismo, modello universalmente fallito a prescindere da luoghi e tempi della sua applicazione. 

Ebbene, proprio in un Paese come l’Italia, dove prevale la confessione cattolica, c’è chi, nella variegata realtà dell’islam, ha compreso la lezione della libertà religiosa insegnata dalla Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II mediante la dichiarazione Dignitatis humanae, che già dal Proemio ricorda che «nel diffondere la fede religiosa e nell'introdurre pratiche religiose, si deve evitare ogni modo di procedere in cui ci siano spinte coercitive o sollecitazioni disoneste o stimoli meno retti, specialmente nei confronti di persone prive di cultura o senza risorse: un tale modo di agire va considerato come abuso del proprio diritto e come lesione del diritto altrui».

Non sfugge nemmeno ai musulmani, che possono constatarlo quotidianamente e sul terreno della realtà, che anche in Italia alcuni gruppi islamici dall’indottrinamento passano alla radicalizzazione dei loro fedeli, per spingersi talvolta fino al reclutamento di terroristi.

Perciò vi è chi ha responsabilmente contribuito a promuovere la trasparenza degli organigrammi e dei bilanci all’interno delle associazioni musulmane, in uno spirito di servizio che pochi mesi fa ha condotto all’elaborazione delle linee guida per una disciplina condivisa dei luoghi di culto della confessione islamica da parte del Comitato per l’islam italiano. Nel testo, si ricorda che «non può essere sottovalutata l’esistenza di alcune pretese di extraterritorialità, che in alcuni strati minoritari della popolazione islamica coincidono con l’adesione alla dottrina, propria del diritto sharaitico più antico, che impone una rigida separazione fra “credenti” e “miscredenti”». È questione di tutela della sovranità nazionale, che ha indotto a richiamare «l’esigenza di rendere meno ambiguo lo statuto a cui si intende che soggiaccia il luogo di culto islamico, laddove entri in gioco la legislazione italiana oppure la suddivisione del territorio in una parte pacifica, il dâr al-islâm o «casa dell’islam» compresa in una dâr al-amn “casa della sicurezza”, e alcune zone di conflitto come il dâr al-harb o “casa della guerra” e il dâr al-kufr, “casa della miscredenza”, che indica i luoghi in cui la legge islamica non può essere ufficialmente applicata».

Affinché non appaiano come specificazioni puramente intellettuali, lo stesso Comitato ha ripercorso, nel proprio parere, le esperienze negative già archiviate dal governo laburista britannico e dai governi socialisti francesi, suggerendo che il solo scongiurare il pericolo della violenza non risulta di per sé sufficiente a garantire a lungo termine l’integrazione. Accanto all’opportunità di una collaborazione fra le istituzioni e le entità islamiche, vi è anche l’esigenza di compatibilità culturale con i valori propri della società civile e religiosa circostante. Perciò, fra i requisiti richiesti dall’organismo di consulenza del ministero dell’Interno «come segnali di un percorso di condivisione di regole e obiettivi fra le minoranze religiose e l’ambiente circostante», vi è anche «l’adesione alla Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione, adottata con Decreto del Ministero dell'Interno del 23 Aprile 2007».

Non tutti coloro che si sono seduti al tavolo del Comune di Milano hanno firmato o approvato quel documento. E non si capisce in forza di quale criterio i musulmani “moderati” dovrebbero condividere la stessa dignità di chi persegue, più che finalità religiose, scopi politici e ideologici e magari ospita terroristi e reclutatori di kamikaze. È auspicabile che tutti cooperino con le istituzioni, a ogni livello.

Ma non è sufficiente dichiararsi non violenti per impostare una partnership seria. Una discriminazione deve essere consentita fra chi ha a cuore il bene comune e chi invece vuole imporre la legge coranica sul territorio milanese.