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MEDIO ORIENTE

Israele e Territori, ragioni storiche dell'annessione

È imminente in Israele, dovrebbe avere inizio il 1° luglio, il processo di consultazioni e varo di provvedimenti per l’annessione di parte (circa il 30%) della Cisgiordania. Il diritto che Israele difende ha certamente basi giuridiche e una storia secolare. L'accanimento mostrato dall'Onu nei suoi confronti non ha senso

Esteri 30_06_2020
Netanyahu

È imminente in Israele, dovrebbe avere inizio il 1° luglio in sede governativa e parlamentare, il processo di consultazioni e varo di provvedimenti per l’annessione di parte (circa il 30%) della Cisgiordania. Argomento che all’inizio di gennaio, appena inserito nella “visione di pace” del presidente americano Donald Trump, non poteva non suscitare reazioni sdegnate e minacciose dell’Autorità Palestinese (agita la proclamazione unilaterale dello Stato indipendente con Gerusalemme capitale). Reazioni che si sono acuite, e pure estese nei mesi successivi al mondo arabo e alla comunità internazionale, con la formazione del governo di coalizione Netanyahu-Gantz, avendo i loro partiti “Likud” e “Blu e Bianco” considerato questa prospettiva un punto qualificante, e non rinviabile, del loro comune programma.

Come mai questa decisione e perché mai tanta fretta? Innanzi tutto perché il sostegno degli Stati Uniti, ritenuto essenziale, ha dimostrato di contenere e persino vanificare le avversità e le proteste espresse nel mondo arabo e sullo scenario internazionale in occasione del trasferimento, voluto dal presidente Trump, dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconosciuta in tal modo “capitale” dello Stato ebraico. E’ parso quindi realizzabile, a portata di mano, un “bis” dall’indubbio valore politico.

Non si sa infatti cosa riserva il futuro, ovvero se le prossime elezioni politiche manterranno Trump alla Casa Bianca o lo costringeranno a lasciarla. Ed ancora: Netanyahu di questo suo disegno ne aveva fatto un motivo centrale delle ultime, ravvicinate, tre campagne elettorali; ed ora che è riuscito a conseguire la quinta consecutiva guida del governo – consolidando così il primato della longevità di premier (che non fu neanche del “padre della patria” David Ben Gurion) – vuol ottenere un gran successo personale. Tale è considerata l’estensione della giurisdizione di Israele sui 235 insediamenti costruiti in Giudea e in Samaria, cittadine piccole e grandi, che accolgono circa 400 mila immigrati, definiti “coloni” dai media anti-israeliani.

Ma soprattutto Netanyahu, d’accordo con Gantz, vuol far valere un principio e un diritto insieme. Il principio che l’Autorità Nazionale Palestinese, sorta in seguito agli accordi di Oslo del 1993 per realizzare la pace tra israeliani e arabi palestinesi (prospettiva premiata con l’assegnazione di tre premi Nobel) e la prevista creazione di due Stati che vivano in pace e in sicurezza reciproche, non può pretestuosamente respingere tutti i compromessi offerti da Israele in quasi trent’anni di negoziati. La “visione di pace” di Trump prevede il superamento dell’ostinato rifiuto palestinese al negoziato, con l’annessione israeliana di parte della Cisgiordania, compensata però da cessione di territorio (corridoi ferroviari e stradali, territori nel Negev e un porto nel Mediterraneo, ndr) e da massicci investimenti finanziari.

Dietro l’irragionevole rifiuto dell’Autorità palestinese di compromessi incredibilmente vantaggiosi, Israele ha visto chiaramente la sua determinazione di perseguire la creazione di uno Stato per mezzo del terrorismo e la violenza (la mai cessata Intifada) e della mobilitazione popolare, specie al confine di Gaza con l’impiego di mezzi offensivi contro i soldati e lanci di razzi e ordigni incendiari sul territorio israeliano. Ed inoltre, distraendo a fini politici i finanziamenti umanitari e sociali di paesi occidentali e quelli dei paesi arabi amici, per assicurarsi il consenso internazionale, soprattutto in seno all’Assemblea generale e nelle istituzioni specializzate delle Nazioni Unite. Mostrandosi infine restia a cancellare l’incitamento all’odio e il rifiuto della coesistenza con gli ebrei dai programmi scolastici, libri di testo, trasmissioni TV, ecc.) e a neutralizzare i gruppi islamici fondamentalisti (Hamas detiene il potere nella striscia di Gaza da quando fu evacuata da soldati e famiglie di agricoltori israeliani) per i quali lo Stato ebraico, che non esiste sulle carte geografiche arabe, deve scomparire “per sempre”.

Il diritto che Israele difende ha certamente basi giuridiche e una storia. Non solo quella “recente”, si fa per dire, rappresentata dalle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza, seguite alle guerre promosse dai paesi arabi della regione (quella “dei Sei giorni” del 1967 e “del Kippur” del 1973; ne sarebbero usciti sconfitti come nella prima guerra del 1948) nonché della breve, inconcludente, Conferenza di pace di Madrid (30 ottobre-4 novembre 1991) e degli importanti “Accordi di Oslo” (19 agosto 1993) con la Dichiarazione di principio sull’autonomia palestinese.

Ma anche quella “antica” a cominciare dalla Conferenza di Sanremo (19-26 aprile 1920) delle nazioni vincitrici della Prima Guerra Mondiale che sul territorio dell’Impero ottomano dal Mediterraneo al fiume Giordano, conosciuto come Palestina, stabilirono un “mandato” amministrativo affidato alla Gran Bretagna. Come il toponimo geografico così tutti gli appuntamenti storici sopra citati non si riferiscono all’esistenza di uno Stato, di una nazione, del territorio di una comunità organizzata palestinese. Su altri territori dell’Impero ottomano, furono configurati gli Stati di Libano Siria, Giordania, Iraq: il mandato sui primi due venne affidato alla Francia, sugli altri due alla Gran Bretagna.

A Sanremo fu invece esplicitamente riconosciuta la “connessione storica” del territorio di Palestina con il popolo ebraico. La conferenza adottò infatti la Dichiarazione Balfour del 1917 con la quale la Gran Bretagna si era dichiarata favorevole alla costituzione in Palestina di un foyer per il popolo ebraico che non recasse “pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche”.

Se le Nazioni Unite hanno poi rispettato questa “connessione” creando il 27 novembre 1947, con la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale, i due Stati, ebraico e arabo, non hanno certamente brillato nel sostenere il principio della restituzione “di” territori conquistati da Israele nelle tre guerre mossegli e perdute dai paesi arabi (senza precisare quali territori e indicare a chi).

Impressiona che tale principio viene ancora oggi sostenuto come valore fondante del diritto internazionale, ma soltanto a onta di Israele. Parte dei territori furono da esso conquistati nella guerra del 1948. Ma due-tre anni prima pure con la violenza (foibe, assassini, attentati, espulsione di ben 350 mila italiani) i partigiani comunisti del dittatore jugoslavo Tito conquistarono quelli della penisola istriana e della Venezia Giulia, occuparono persino Trieste e intendevano spingersi fino alla Slovenka Benecija (la città di Venezia) e mai sono stati degnati dell’attenzione, tanto meno di risoluzioni, delle Nazioni Unite.

Ed oggi le Nazioni Unite non vedono l’occupazione effettuata dalla Russia della Crimea ucraina, compiuta con la violenza e le falsificazioni militari (che continuano nelle regioni del Donbass ucraino con la guerra spacciata come “civile”) e, prima, di regioni georgiane e moldave. E nemmeno quella cinese del Tibet. E neanche la repressione cinese dello statuto autonomo di Hong Kong.