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CONTINENTE NERO

Kabila, il padrone del Congo che non lascia il potere

Joseph Kabila, presidente del Congo, avrebbe dovuto lasciare il potere da due giorni. Invece, senza alcuna giustificazione, ha sospeso il voto e si è prolungato il mandato fino alla primavera del 2018. Kabila è praticamente proprietario del suo paese, controllandone le miniere. Ora tira aria di insurrezione contro il suo potere assoluto.

Esteri 22_12_2016
Joseph Kabila

In Gambia si è aperta una crisi che rischia di degenerare in guerra civile con connotazioni etniche.  Il 7 dicembre il presidente del Gambia Yahya Jammeh ha annunciato che non lascerà la carica, nonostante l’esito a lui sfavorevole delle elezioni presidenziali svoltesi il 1° dicembre. Sostiene che il voto è stato falsato da brogli da parte dei sostenitori di Adama Barrow, il candidato risultato vincente. Lo dimostrerebbero alcuni riconteggi già effettuati che in effetti hanno nettamente ridimensionato la distanza tra i due candidati riducendola al 4% rispetto ai quasi 10 punti iniziali. Questo e la prospettiva di essere arrestato e incriminato per violazioni dei diritti umani commesse nei 22 anni al potere, secondo quanto affermato da esponenti della coalizione di partiti che sostiene Barrow, hanno indotto Jammeh a respingere il risultato che dapprima aveva accettato riconoscendo la sconfitta. Il voto va ripetuto, sostiene adesso Jammeh, nonostante le pressioni e i tentativi di mediazione. “Non mi lascierò intimidire da nessun potere al mondo – ha detto parlando il 20 dicembre nella sede gambiana della African Bar Association, l’associazione degli avvocati africani – mi voglio accertare che giustizia sia fatta. Sono un uomo di pace, ma non sono un codardo. Sono un uomo di pace, ma questo non significa che non sia disposto a difendermi, a difendere il mio paese, a difenderlo con coraggio e patriottismo e vincere”. Nei giorni precedenti Jammeh, uomo molto devoto, di fede islamica, aveva anche detto che le elezioni saranno ripetute, ma con una nuova Commissione elettorale “timorata di Dio”, garante della correttezza del processo elettorale. 

Il presidente Jammeh almeno un vago scrupolo di dimostrarsi nel giusto, dalla parte della ragione e del diritto, lo ostenta. Tanti altri leader africani neanche quello: Joseph Kabila, ad esempio. Kabila è presidente della Repubblica Democratica del Congo per aver ereditato nel 2001 la carica dal padre, Laurent Désiré, assassinato. Due giorni fa avrebbe dovuto cedere il potere: il suo mandato è infatti scaduto alla mezzanotte del 19 dicembre. Siccome però ha già svolto i due mandati consentiti dalla costituzione, grazie a due elezioni peraltro spudoratamente truccate, Kabila ha trovato il modo di sospendere il voto in agenda il 27 novembre e conservare il potere. A maggio per prima cosa ha ottenuto dall’Alta corte una sentenza in base alla quale, nel caso di rinvio delle elezioni, al presidente è consentito rimanare in carica fino al loro successivo svolgimento. Poi il 1° ottobre la Commissione elettorale nazionale indipendente molto opportunamente ha “scoperto” che problemi economici e forti ritardi nella compilazione del registro degli aventi diritto al voto costringevano a rimandare le presidenziali... fino all’aprile del 2018. Pochi minuti dopo la mezzanotte del 19, mentre l’opposizione reclamava ancora una volta il rispetto delle regole democratiche, Kabila ha annunciato la formazione di un nuovo governo, di transizione, composto da 74 (!) ministri.

Nella notte sono incominciati i disordini. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade delle città principali. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni. Negli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine più di 20 civili sono stati uccisi nella capitale Kinshasa e nella seconda città del paese, Lubumbashi. Si aggiungono agli oltre 50 uccisi a settembre durante le dimostrazioni organizzate dall’opposizione quando ha incominciato a circolare voce che le elezioni sarebbero state rimandate con qualche pretesto. Il leader storico dell’opposizione, Etienne Tshisekedi, ha dichiarato che quello di Kabila è un colpo di stato: “lancio un solenne appello al popolo congolese a non riconoscere l’autorità illegale e illegittima di Joseph Kabila e a resistere pacificamente al suo colpo di stato” dice in un video pubblicato sui social media che però i cittadini congolesi non hanno potuto vedere perchè nei giorni scorsi il governo ha ridotto l’accesso ai social media.

Kabila non ha neanche provato a giustificarsi parlando di interesse nazionale e di giustizia. D’altra parte tutti sanno perchè, come d’altra parte tanti altri suoi colleghi, ci tiene tanto a restare al potere. La sua famiglia controlla imprese e attività commerciali in tutto il paese. Lui e i suoi parenti hanno più di 120 permessi di sfruttamento di miniere di oro, rame, cobalto e diamanti. Inoltre possiedono o detengono azioni e quote di banche, aziende agricole, distributori di carburante, compagnie aeree, imprese di costruzione, alberghi, ditte fornitrici di prodotti farmaceutici, agenzie di viaggio, negozi, locali notturni... persino un’impresa che progetta il lancio nello spazio di un topo. 

Stati Uniti e Unione Europea hanno adottato sanzioni contro diverse personalità politiche e militari. Il governo congolese ha risposto definendo i provvedimenti “un ritorno del tutto illegale all’epoca coloniale”. 

La Chiesa cattolica per mesi ha tentato di evitare la crisi. Poi, a novembre, i vescovi hanno abbandonato il dialogo nazionale, l’organismo creato per discutere la situazione politica al quale avevano aderito: il paese è “sull’orlo di un nuovo conflitto globale – si legge nel comunicato con cui la Conferenza episcopale annunciava di lasciare il dialogo – se, come sembra, il presidente Kabila non indirà le elezioni rinunciando al potere dopo due mandati, così come prevede la Costituzione, tutto il Paese precipiterà nella guerra civile”.